martedì 20 marzo 2018

IL PAPATO SI RINNOVA ED È DI NUOVO PROTESTA


Per gli arruolati al partito antipapista la testimonianza dell’ex papa Benedetto XVI a sostegno di papa Francesco, a conferma della sua sapienza teologica e della continuità del suo pontificato con quello precedente, è arrivata come una sciagura. Così hanno cercato di azzerarla, svelando che nella lettera dell’ex papa c’era anche una riserva per uno dei teologi che aveva collaborato alla collana pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per i primi cinque anni di pontificato. Ma per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto del precedente pontefice di prendere le parti  o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio. La quale, dalla casamatta del blog dell’Espresso, annuncia ora per il 7 aprile a Roma una specie di Convenzione antagonista per pubblicare le Tesi di una nuova Protesta.
Tornando alla Chiesa, c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di posizione dell’ex papa Benedetto, ha avuto il merito di portare alla ribalta, come oggetto di riflessione, la natura stessa del papato, anche al di là del giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato, condizione e volano della riforma della Chiesa.
L’ostacolo era  che nel corso del secondo millennio cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di Dio. La manifestazione più vistosa nel Novecento se ne ebbe nella figura ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni XXIII, la mitizzazione giunse ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Ma è in Paolo VI che il mito giunse alla sua massima crisi. Egli se ne era fatto custode, quando al Vaticano II aveva imposto (e aggiunto in via “previa”) una sua interpretazione restrittiva al documento conciliare  sulla collegialità episcopale, per toglierne qualsiasi ombra che potesse offuscare la dottrina del primato e scolorire la figura del papa; e il 1 settembre 1966 in una sosta ad Anagni dove Bonifacio VIII aveva ricevuto il mitico schiaffo francese, rivendicò i meriti di quel ruvido papa “che più degli altri aveva affermato la più piena e solenne autorità pontificia” nel quadro concettuale “dei due poteri, uno spirituale l’altro temporale” disposti però su una “scala dei valori” per cui lo spirituale doveva prevalere sugli altri, e infiammò i fedeli così: “Questa comunità (la Chiesa) è organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia. Figlioli miei, è la Gerarchia che vi sta parlando, è il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi… Posso domandarvi, figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa, amate il Papa, perché senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore. Non guardate a noi, guardate il Signore di cui rappresentiamo…”, e la frase non finì per gli applausi. Ed è certamente per la forte coscienza di questa rappresentanza ricapitolata in lui che papa Montini compì i suoi gesti più estremi, come la Humanae Vitae, disattesa dalla Chiesa, o la decapitazione e riduzione al silenzio della Chiesa di Bologna.
Ma il mito si rovescia in tragedia quando Aldo Moro, nonostante la supplica montiniana alle Brigate Rosse che lo hanno rapito, viene ucciso. E nella preghiera agli agghiaccianti funerali di Stato che Moro aveva detto di non volere, Paolo VI si mostra sgomento perché lo scambio con Dio non ha funzionato, e lo interpella con un lamento che assomiglia più al “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” di Gesù, che alle rimostranze di Giona a Dio che si era pentito di voler distruggere NInive e non l’aveva distrutta. In tale lamento Paolo VI  rompe nel grido e nel pianto la sua voce e si duole, quasi incredulo, con Dio: “Tu, o Dio della vita e della morte, Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, quest’uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”; e tanto ne fu il dolore, che dopo pochi mesi Paolo VI morì.
E infine giunge Benedetto XVI, “il papa teologo”, che pone soavemente l’atto più eversivo del mito, con le sue dimissioni da papa, demitizzando in tal modo il papato. E proprio da lì comincia la riforma della Chiesa.
Ma in quale direzione? La disputa intorno alla lettera di Ratzinger su Bergoglio è stata su chi fosse il papa più teologo,  o sul negare che  Francesco fosse teologo. L’errore di questa disputa stava  nel presupposto secondo cui il necessario predicato del papa è “professione teologo”. Certo deve saperne di teologia, però la professione di Pietro non era teologo, ma pescatore. Così lo prese Gesù, e con lui anche gli altri. Del resto anche come pescatori lasciavano a desiderare, e se non era per Gesù che faceva gettare le reti e distribuire i pesci, le folle restavano digiune.
Il papa non è lo scienziato di Dio, ma ne è il messaggero. Il termine stesso “teologia” del resto è esagerato. Non c’è una “scienza” di Dio, Dio non si può racchiudere nella nostra conoscenza, non sta lì, sta “in una brezza leggera”. Dice il vangelo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, è il Figlio che lo svela, che lo racconta, che ne fa “l’esegesi”. Dunque a rigore c’è un solo teologo, che è Gesù, come un solo maestro, che è lui.
Perciò papa Francesco non deve passare al vaglio di un’accademia, e non sono su questo piano la continuità e le differenze col suo predecessore. Per questo è così affascinante la domanda su chi è veramente Francesco, e per quale forza sta cambiando, presso l’uomo moderno, l’idea stessa di religione e l’immaginario di Dio.

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