martedì 23 gennaio 2018

Perdonare il papa



Ha detto un giurista ormai classico, Carl Schmitt, che i principali concetti politici dell'Occidente sono concetti teologici secolarizzati. È stato un guaio, sia perché molti di tali concetti teologici sono stati presi per il verso sbagliato (o magari erano di una cattiva teologia), sia perché la teologia, secolarizzandosi, si snatura. È così che dall'onnipotenza di Dio è venuta l'onnipotenza dello Stato, dalla trascendenza è scaturita la sovranità che non riconosce niente sopra di sé, dal dies irae del giudizio divino è venuta la vendicatività della giustizia penale e da Carlo Magno si è arrivati ad Hitler. L'altra conseguenza è che molti hanno perso la fede.
Papa Francesco sta facendo un'operazione del tutto diversa, nutre la fede del popolo di concetti teologici umanizzati. Cioè fa ciò che è il cristianesimo: Dio in forma umana, e dunque il crocefisso, la realtà guardata dagli uomini
come divina. Ciò comporta la riforma della Chiesa e del papato. Sull'aereo nel primo viaggio di ritorno dal Brasile si era chiesto "chi sono io Francesco?". Sull'aereo nell'ultimo viaggio da ritorno dal Perù si è dato una risposta: sono uno che può sbagliare, uno che con una parola infelice ho ferito le vittime che più voglio difendere, quelle degli abusi sessuali del clero; perché sentire che il papa dice "portatemi la prova" è uno schiaffo; a loro chiedo scusa, l'ho fatto senza volerlo, e mi fa tanto dolore.
È un piccolo episodio, giustamente amplificato dai media, ma umanizza un concetto teologico che, distorto, ha fuorviato la Chiesa: il papa come Dio in terra, l'arrogante amplificazione della dottrina dell'infallibilità, che non è il proclamare il dogma dell'Immacolata Concezione ma è l'idea che la Chiesa non sbaglia mai, che, come scrisse Gregorio VII, "la Chiesa Romana non ha mai errato, né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l'eternità", e che il papa è santo comunque, "per i meriti del beato Pietro", ed è lui che decide della coscienza dei fedeli e abbatte il muro di Berlino, fino al "santo subito" ai funerali di Papa Wojtyla.
La teologia umanizzata di papa Francesco gli fa dire 
ai giovani di Lima che i cristiani non devono essere dei supereroi, che Dio non si scoraggia mai per i loro difetti e i loro peccati, "no se desanima", che non c'è bisogno di truccarsi per piacergli, che Lui ha sempre scelto gente piena di difetti, "Mosè era balbuziente, Abramo un vecchio, Geremia molto giovane, Zaccheo uno piccoletto, i discepoli invece di pregare si addormentavano, la Maddalena, una peccatrice, Paolo, un persecutore di cristiani, Pietro, uno che lo ha rinnegato; e Lui non ha smesso di amarli, con i loro difetti, con la voglia di correggersi, ma così com'erano ...".
E la teologia umanizzata gli fa preferire una Chiesa "incidentata", piuttosto che barricata in casa, e anche di "incidentare" se stesso, perché poteva benissimo non rispondere alla giornalista di Iquique che gli chiedeva conto della sua difesa del vescovo Barros, ma ha pensato che lei "aveva diritto" a una risposta perché era una fedele di quella diocesi di cui Barros era stato vescovo, e perciò si è preso il rischio di una risposta maldestra, la cui intenzione era però di non mancare di giustizia. E ad averli feriti, col parlare di "prove",
ha chiesto scusa ai discepoli abusati, e lo ha fatto con tenerezza, con misericordia. All'ordine dell'umano appartiene non l'essere infallibili e perfetti, ma l'essere giusti ed emendabili. E così anche per il papa. Così che si possa perdonare anche il papa.
Col suo ritorno a Roma ha coinciso anche il primo
intervento del cardinale Bassetti, ossia della Chiesa italiana in formato Francesco, in una campagna elettorale politica. È stato un intervento generalmente ritenuto ineccepibile, contro il razzismo e contro le falsità della politica, con un forte appello a sposare la politica come vocazione, non per il potere, ma per servire il bene comune.
Un bene comune che è molto lontano, se le statistiche dell'OXFAM annunciano che la forbice della diseguaglianza si è allargata in modo perverso nel mondo globalizzato, tra i pochissimi (l'1%) che possiedono tutto e moltissimi (3,2 miliardi) che non possiedono niente, e dicono che questa divaricazione sociale è cresciuta paurosamente in Italia dove il 20% più ricco detiene oltre il 66% della ricchezza nazionale mentre il 60% più povero detiene il 14,8% della ricchezza nazionale e 14 miliardari hanno tanti soldi quanto il 30% più povero mentre, come si duole il Presidente della CEI, sono ormai un milione e mezzo le famiglie italiane in povertà assoluta, con un aumento del 97% rispetto a dieci anni fa. È di questo, e non del poter celebrare delle nozze in aereo (perché anche di questo è stato rimproverato il papa) che si occupa la "dottrina sociale" che se non ha perso il suo nome, come voleva Paolo VI, si sta tuttavia liberando della sua armatura ideologica grazie all'attuale rinnovamento della Chiesa. 
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venerdì 19 gennaio 2018

Le guardie armate dell'apartheid europeo

La cosa più brutta è stato il decreto con cui si sono rifinanziate tutte le missioni militari italiane di "difesa avanzata" e si è dato il viatico all'esercito che torna in Africa in assetto di guerra, da colono. Poiché la bugia fa coppia fissa non con la politica, ma con la governabilità, cioè con la pretesa del potere di governare senza regole e senza Costituzione, il capo del governo ha detto che è una missione "no combat", non per combattere; sarebbe con le buone che si respingerebbero le carovane dei profughi nel deserto verso i loro inferni, per non far loro passare i confini d'Europa, avanzati anche quelli fino al Sahel. Ma appunto è un bugia; ha avuto la lucidità di darne notizia la Repubblica, nonostante essa sia oggi accusata di essere in stato confusionale dal suo capitalista fondatore, l'ing. De Benedetti  (quello che "indovina chi viene a cena" ed è sempre un Grande della terra). Ha scritto la Repubblica che nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini: "nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra". Questo significa essere coloni seri: lo faccio e lo dico. Dal 1967 Israele mette colonie in terre non sue, e se ne fa un vanto; il Congo fu addirittura chiamato Congo Belga, e l'Algeria, senza pudore, francese. Noi invece mandiamo l'esercito ma non lo diciamo a nessuno di troppo, lo facciamo con un mormorio. Quando, la prima volta, nel settembre 1911, l'Italia dichiarò guerra alla Turchia ottomana e andò a prendersi Tripoli, il re era in vacanza a San Rossore, il Presidente Giolitti, come se niente fosse, se ne stava a Dronero, e il Parlamento era chiuso per ferie; e nemmeno i giornalisti italiani che erano a Costantinopoli, in casa del Nemico, ne sapevano niente, tanto che non ne parlarono nei loro dispacci, come si può leggere oggi nelle corrispondenze di uno di loro, pubblicate da Bordeaux nel libro "Cronache Ottomane di Renato La Valle", utili per capire qualcosa  di quello che succede anche oggi.
Dicono oggi che non andiamo nel Niger a combattere; chissà perché allora ci andiamo ben armati; ci fu una missione militare italiana veramente umanitaria, nel 1991-92, quando si trattava di risollevare l'Albania dal baratro, dopo la fine del suo comunismo alla cinese; ma lì l'esercito italiano ci andò senza portare armi, e non a caso l'operazione si chiamò "Pellicano". Si portarono invece i camion, e ogni mattina i soldati partivano dalla base e andavano in montagna a portare cibo alle popolazioni stremate, e talvolta a spartire anche la loro colazione. La destra (allora c'era il Movimento Sociale Italiano) era furibonda, perché non si era mai visto un esercito senz'armi, indifeso. E il generale che comandava quei mille militari del contingente spiegò che la loro sicurezza stava proprio nel non avere armi, e perciò non essere percepiti come occupanti e nemici. Nel Niger saranno percepiti invece, insieme ai francesi, come le guardie armate dell' "apartheid europeo", che tornano nei vecchi domini per filtrare uomini donne e bambini e far passare solo le ricchezze, uranio o petrolio che siano. Inutilmente un missionario italiano in Niger, Mauro Armanino, ha scritto da laggiù che saremmo andati ad alimentare il terrorismo di Stato in un Paese di sabbia e di vento, uno dei più poveri del pianeta; il Parlamento, umiliato, ha vissuto il suo "mercoledì delle ceneri", perché, già sciolto, è stato riconvocato apposta non per approvare fuori tempo massimo la legge che dà i diritti dello "ius soli", ma per approvare fuori tempo massimo il decreto che intercetta il diritto di asilo e sparpaglia pezzi di forze armate italiane in trentacinque missioni su tre continenti.
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martedì 16 gennaio 2018

CONTRO LA SENTINELLA



Come la sentinella di Isaia, la sentinella del profeta, il papa ripete il suo grido di allarme: badate, "siamo al limite", se non raddrizzate le vostre vie una guerra nucleare può scoppiare anche per caso, per un incidente. Lo ha ripetuto nell'aereo che lo portava a un difficile viaggio in Cile e in Perù, e per l'occasione ha anche distribuito ai giornalisti una fotografia scattata a Nagasaki nel 1945, di un bambino che reca sulle spalle, per portarlo al crematorio, il fratellino morto grazie alla seconda bomba atomica americana sul Giappone, e accanto alla foto ha scritto: questi sono i frutti della guerra. Poi, sbarcato a Santiago, per prima cosa alla presidente Michelle Bachelet ha recato "il dono della pace" fondata sulla sinfonia delle differenze e sulla resistenza al "paradigma tecnocratico".
Francesco è l'unico ormai che fa un discorso che si prenda cura del futuro. E lo fa con gesti che ne svelano il motivo: è l'amore per i bambini, per l'universo umano, l'amore per l'uomo che rischia di morire suicida sulla sua Terra. Per questo il mondo che non vuole essere distolto dai propri interessi, quale che ne sia il costo, ce l'ha con il papa; e l'avversa e lo perseguita in tutti i modi, anche nei momenti più difficili.
Difficile è questo viaggio in America Latina, non solo per i Mapuche, che hanno tutte le ragioni, da secoli, per avercela con la Chiesa, ma per i violenti e gli integralisti che hanno messo piccole bombe e appiccato piccoli incendi nelle chiese per protestare contro di lui. Ma è proprio vero che queste sono piccole bombe, bombe private, al paragone di quelle grandi, pubbliche, i cui frutti ci narrano le foto? Non è forse vero che, dietro, gli scenari, i moventi sono gli stessi?
Il viaggio del papa è difficile, anche perché va lì, ma passa sopra il suo Paese, non va in Argentina, dove un presidente eletto, Mauricio Macri, usa violenza contro il suo popolo, anche se una violenza diversa da quella degli ammiragli e dei colonnelli. E naturalmente c'è chi ne approfitta per sobillare anche una protesta di argentini contro il papa. E questi trovano una sponda a Roma, un'eco, o magari il contrario: l'eco sta lì e la gola sta qua. Fatto sta che il blog antipapista dell'Espresso, gestito da Sandro Magister, ha pubblicato un pamphlet anonimo, in spagnolo, di "un argentino credente cattolico romano" che accusa il papa di avere in questi cinque anni avviato un processo "de dilapidación, de deconstrucción" della Chiesa e dice che quello che per gli argentini poteva essere un privilegio e un'opportunità, che il papa cioè fosse un argentino, sarebbe diventato un peso e "una vergogna".
Mai si era scesi fin qui nella lotta antipapista. E ciò sia detto perché si capisca la posta in gioco, e come debba essere vigilante la fede.
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venerdì 12 gennaio 2018

La verità nella politica


Nella campagna elettorale appena iniziata si pone un problema di verità, come si pose in occasione del recente referendum costituzionale. Si è dato per scontato, da giornalisti degli studi televisivi, col supporto del filosofo di studio, che "tutti" dicono bugie, perché la campagna elettorale sarebbe il luogo delle favole, non della realtà effettiva. Ma se "tutti" dicono bugie, non c'è ragione di sceglierne alcuno: dunque gettare il fango della menzogna su tutti i politici e su tutto il momento elettorale della politica, significa militare per l'antipolitica, stornare dal voto gli elettori di cui pure si lamenta l'astensione, incoraggiare i populismi e quindi in sostanza, ancora una volta licenziata la politica, conservare l'attuale dominio dei poteri qual è. 
Non a caso la previsione-speranza che emerge da gran parte dei talk show televisivi è che, non potendosi dopo le elezioni mettere insieme una fiducia a un governo, resti a governare a tempo indeterminato (un precario in meno!) un governo senza fiducia, cioè in pratica quello che c'è. 
Di questo deficit di verità, imputato ai politici, peraltro i giornalisti non sono esenti, anzi proprio per il loro ruolo molti di loro, nell'accanimento con cui cercano di promuovere uno e distruggere altri, sono gli officianti ministri della menzogna. 
Per esempio è una bugia dire che tutti promettono di abbassare le tasse; non tutti lo fanno, e in ogni caso bisognerebbe spiegare che si parla di due cose diverse: una cosa è abbassare le imposte per tutti, e un'altra è abolire una tassa. Nel primo caso si tratta di togliere risorse alla fiscalità generale fino a promettere un'aliquota del 15 % per tutti, cosa impedita dalla sacrosanta progressività del sistema tributario, non a caso prevista dalla Costituzione all'art. 53 non nel titolo dei "rapporti economici" ma in quello dei "rapporti politici", perché ne va della democrazia e della Repubblica; nel secondo caso si tratta di agire su una tassa di scopo, con cui si pagano dei servizi, che per altissimi motivi lo Stato può prendersi a carico, come fa per la sanità garantita a tutti i cittadini; sarebbe questo il caso dell'abolizione delle tasse universitarie per assicurare a tutti, ricchi o poveri che siano, il diritto allo studio fino ai gradi più alti. 
Ma un problema di verità si pone anche quando l'ISTAT dà i numeri dell'aumento dell'occupazione, intendendo per occupazione anche un lavoro di un'ora alla settimana, e in realtà si sono perdute un miliardo e duecento milioni di ore lavorative; come c'è un problema di verità quando ci si gloria della riduzione dei flussi migratori, mentre in questo inizio di gennaio vi sono già quasi 200 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale, quando nell'intero mese di gennaio dell'anno scorso i morti furono 254.
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lunedì 8 gennaio 2018

L’AMORE COME RISPOSTA ALLA CRISI

Mentre la guerra è stata sempre messa al centro e al culmine del sistema politico, mai l’amore ha potuto essere assunto come principio e norma della sfera pubblica e della vita collettiva. Perché oggi ciò è invece pensato come la novità che può accadere
Relazione tenuta da Raniero La Valle su invito di “Ore undici” all’incontro svoltosi a Roma il 6 gennaio sul tema “L’amore crea”.
Ringrazio “ore 11” dell’invito e del tema che mi avete proposto. In effetti questa è la tesi della mia vita: l’amore come risposta alla crisi. Ed è proprio “la tesi”: non è un’ipotesi, nel senso pragmatico in cui i cattolici liberali dell’ 800 parlavano di tesi ed ipotesi per stemperare un po’ la rigidità della tesi intransigente. L’amore come risposta alla crisi non è per me un’ipotesi, è la tesi della mia vita.
Ma se l’amore è la tesi, se è la risposta alla sfida stessa della vita, allora deve essere una cosa molto seria, non può essere solo una cosa romantica, un’espressione di buoni sentimenti; deve essere qualcosa che ha a che fare con la struttura dell’esistenza e dell’essere. 
Ora, che ciò possa essere vero per la vita personale, per la storia singolare di ciascuno, molti sono disposti a riconoscerlo, soprattutto in ambito cristiano: l’amore è sì difficile, doloroso, ma nella vita personale si può vivere d’amore, si possono dare risposte d’amore. Questo fa parte di una diffusa convinzione cristiana. 
L’amore come problema politico

Ma che l’amore possa essere la struttura della vita pubblica, la risposta ai problemi della vita collettiva, il criterio della storia, questo non è creduto da nessuno. Anzi, al contrario, il criterio del politico, cioè della vita organizzata degli uomini e delle donne insieme, è stato identificato in Occidente nel rapporto tra amico e nemico; e questo non solo nella dottrina, ma nella pratica della gestione politica, nella definizione del compito stesso della politica: nel nuovo Modello di difesa italiano, ad esempio, varato dal governo nel 1991, dopo la rimozione del muro di Berlino, dal momento che non c’era più il comunismo come nemico, si programmò che il nuovo nemico fosse l’Islam, prefigurando un rapporto tra Islam e Occidente sul modello del conflitto tra Israele e il mondo ebraico da una parte, e il mondo arabo e palestinese dall’altra.
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