martedì 9 maggio 2017

LA COSTITUZIONE, IL CONCILIO, IL SESSANTOTTO



“Nel corso di una vita”: il perché delle scelte in un’intervista a Raniero La Valle su “Micromega”
Valerio Gigante*

Il 20 novembre scorso  uno scompenso cardiaco ha tenuto Raniero La Valle lontano dalle ultime due settimane della campagna referendaria sulla riforma costituzionale, per la quale si era prodigato in ogni modo a sostegno del No (e il malore che lo ha colto è dovuto proprio al suo impegno senza sosta in giro per l’Italia ad animare incontri, dibattiti, occasioni di riflessione e confronto con cittadini e credenti). Ha seguito quindi da un letto d’ospedale la vittoria del No, la crisi del governo Renzi e la formazione del “nuovo” esecutivo di Paolo Gentiloni. Lo incontriamo nella sua casa romana al termine di una lunga convalescenza, per parlare del legame che unisce gli avvenimenti di ieri a quelli di oggi. La Valle è infatti uno dei grandi protagonisti dell’impegno dei cattolici conciliari e progressisti in politica. Dopo aver diretto il quotidiano della Dc Il Popolo (quando il segretario del partito era Aldo Moro), dal 1961 al 1967 ha guidato L’Avvenire d’Italia, giornale che divenne l'interprete dei fermenti innovatori del Vaticano II, dal quale a causa delle spinte normalizzatrici del post Concilio  decise di dimettersi. Dopo un’esperienza in Rai dal 1976 al 1992 come inviato, è stato senatore di Sinistra Indipendente. Dal 1978 ha anche diretto la rivista Bozze, da lui stesso fondata, testata che ha costituito un importante strumento di dibattito ecclesiale e civile, e che ha chiuso nel 1994. Dopo l’esperienza parlamentare ha sempre continuato l’azione politica e civile attraverso l’impegno in diversi campi, soprattuto quelli della pace e del diritto, animando i Comitati Dossetti per la Costituzione (nati in seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni del 1994), di cui è presidente, dirigendo Vasti, Scuola di ricerca e critica delle antropologie, sostenendo le attività dei giuristi democratici e divenendo punto di riferimento del vasto movimento che in questi anni ha difeso e promosso i valori della Costituzione contro chi voleva aggredirne la lettera e lo spirito.
È da sempre impegnato sui temi della pace, del diritto internazionale (è stato giudice al Tribunale permanente dei Popoli, tribunale d'opinione internazionale finalizzato alla promozione dei diritti umani, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso), dell’economia democratica e della giustizia sociale. Ha scritto moltissimi articoli, saggi e libri. L’ultimo in ordine di tempo è Cronache Ottomane. Come l’Occidente ha costruito il proprio nemico[1],  in cui parla del padre, Renato La Valle, anch’egli giornalista, che era stato inviato a Costantinopoli nel 1908, per raccontare ai lettori del Giornale d'Italia la rivolta dei Giovani Turchi e le trasformazioni in atto nell'Impero Ottomano. Nel libro – attraverso le corrispondenze originali del padre – La Valle ricostruisce le strategie politico-economiche che fin dai tempi di Giolitti hanno contribuito alla costruzione di un "nemico" dell'Occidente.
Raniero, impossibile non partire dall’esito del referendum e dalla crisi politica che ne è scaturita. Impossibile perché tu sei stato tra gli animatori della battaglia referendaria, in particolare attraverso la ricostituzione, a 40 anni di distanza dal referendum sul divorzio, del cartello dei “Cattolici del no”. Che valutazione dai di quello che sta accadendo? Elezioni o meno, pensi che Renzi e il renzismo siano ancora forti?
Credo che il renzismo sia finito. Soprattutto per i clamorosi errori di superficialità e arroganza che Renzi ha commesso, supponendo che la riforma da lui voluta ricevesse il consenso di elettori ingannati. Il risultato del 4 dicembre ha dimostrato l’esatto contrario. Le analisi che sono state prodotte sinora sono a mio giudizio del tutto insufficienti per spiegare quello che è successo, perché mettono l’accento sull’opposizione a Renzi ed al suo governo, da parte dei giovani o del Sud Italia o di determinati settori sociali. Ma io non credo affatto che gli elettori abbiano detto No alla riforma per dire semplicemente no a Renzi ed alle sue politiche. Ritengo invece che la consultazione abbia dimostrato che c’è un elettorato molto più maturo e consapevole di quanto si creda e di quanto viene solitamente raccontato, che – al di là delle strumentalizzazioni che il presidente del Consiglio stesso ha promosso per personalizzare il voto e farne una sorta di plebiscito sulla sua persona – ha voluto difendere la Costituzione da quella che era una riforma che tendeva a stravolgerne il testo e i principi. Non è la prima volta che si vota un referendum costituzionale, ma credo davvero che il testo proposto agli elettori, se approvato, avrebbe modificato in maniera radicale le nostre istituzioni e le regole del nostro vivere democratico. Ritengo che questo gli elettori lo abbiano ben capito, e che abbiano voluto difendere attraverso la Costituzione una cornice di regole, diritti e tutele che altrimenti sarebbero stati seriamente compromessi.
Che prospettive vedi ora per quanto riguarda la nuova legge elettorale?
Credo che ci sia lo spazio per un ritorno al sistema proporzionale, che ritengo l’unico fedele allo spirito della Costituzione e al principio irrinunciabile della rappresentanza, semmai temperato da una soglia di sbarramento che eviti l’eccessiva frammentazione che caratterizza oggi il quadro politico. Credo che di ragioni per rilanciare il sistema proporzionale - dal fallimento dell’ideologia del maggioritario, del bipolarismo (quando non addirittura del bipartitismo), nonché della “semplificazione” del quadro politico, fino al mito della “governabilità” - ve ne siano davvero tante. Anche perché tutti i sistemi finora proposti sembrano disegnati per fare prevalere una forza sull’altra, o impedire l’ascesa di questo o quello schieramento. Penso invece che una legge elettorale debba garantire tutti e avere una prospettiva più ampia delle contingenze politiche e di partito.
La tua proposta di rilanciare i “Cattolici del No” ha suscitato dissensi a volte anche aspri; stavolta anche all’interno del cattolicesimo democratico e progressista. Ti hanno accusato di integrismo, di confessionalizzare il voto, di riesumare un contenitore senza più alcun significato. Cosa c’entra la fede con la Costituzione, sostenevano...
Io non penso che la laicità significhi nascondere la fede. Riferirsi a modelli ideali, e anche alla fede, non è integrismo, ma addirittura premessa della laicità, perché chi lo fa mostra di non accettare che la realtà resti semplicemente com’è. La nostra Costituzione è laica, ma ciò non toglie che sia impregnata di valori cristiani. E i cattolici hanno tradizionalmente avvertito la Costituzione come un loro patrimonio; e non solo perché a scriverla – assieme a comunisti, socialisti, liberali, azionisti - è stata la parte migliore del cattolicesimo politico, da De Gasperi a Moro, da  Dossetti a La Pira, da Lazzati a Angela Gotelli. ma anche perché l’avevano concepita come più avanzata rispetto alla loro stessa tradizione; e hanno voluto impedire, come hanno scritto nel loro appello, che venisse resa strumento di una democrazia dimezzata. Tutto questo, secondo me, non ha assolutamente nulla a che fare con la “sacralizzazione” del testo costituzionale. Che, semmai, è venuta dall’altra parte, dal fronte del “Sì”, che presentava la necessità di cambiare la nostra Carta come un dovere sacro, una questione di vita o di morte.
Ai referendum e all’impegno referendario è legata gran parte della tua esperienza politica, che in  fondo  si può dire cominci con l’impegno per il mantenimento della legge sul divorzio con il referendum del 1974, per poi proseguire, solo per citarne alcuni, con quello sull’aborto, quello del 1993 – perduto – sul maggioritario; poi quello del 2006 sulla riforma costituzionale scritta dai “saggi di Lorenzago”; fino ad  arrivare a quest’ultimo.
Vorrei però ricordare almeno un altro referendum, che ha segnato una tappa importante nel mio impegno politico. Un referendum che non si è potuto celebrare. Mi riferisco all’installazione dei missili a Comiso, che suscitò un’enorme mobilitazione del movimento per la pace. Un evento che incise profondamente nella sinistra, nella Chiesa, nella vita civile. Nel 1982 con il gruppo di Sinistra indipendente lanciammo l’iniziativa di un referendum popolare.  Tecnicamente si trattava di intervenire su trattati internazionali, in parte anche secretati, sui quali non era possibile chiedere un referendum popolare abrogativo. Pensammo allora di far abrogare una sola parola in una legge esistente, una legge di approvvigionamento di armi per le forze armate, che tra l’altro aveva dotato l’esercito di missili Milan, che erano missili di terra, “di teatro”, non nucleari;  proponendo la cancellazione della parola “missili” da quella legge intendevamo conseguire un risultato politico che esprimesse il ripudio degli armamenti nucleari da parte del popolo italiano. Ma era una cosa troppo difficile perché le forze politiche di allora lo capissero, a cominciare dal Partito comunista, che mi disse che non avrebbe collaborato. Perciò alla fine il referendum che avevamo in mente si trasformò  in una straordinaria raccolta di firme contro i missili, che raggiunse in Sicilia un milione di sottoscrizioni, anche grazie all’impegno di Pio La Torre, che fu ucciso anche per questo. Nel 1984 però Il governo ignorò le mobilitazioni, l’orientamento dell’opinione pubblica, le petizioni, il milione di firme siciliane, e annunciò l’operatività dei missili. In ogni caso, quello straordinario movimento sedimentò una sensibilità nuova sui valori della pace e della nonviolenza.
Il tuo percorso politico è però inscindibilmente legato al referendum abrogativo della legge sul divorzio del 1974.
Nel 1974 col referendum sul divorzio si ruppe l’unità politica dei cattolici; un fatto rilevantissimo per la vita politica del paese, direi determinante, per gli sviluppi che l’evento ebbe negli anni successivi. I “Cattolici del No” (che riunivano un arco ampio di credenti, da intellettuali come Scoppola a sindacalisti come Carniti, fino ad associazioni del laicato cattolico tradizionale come le Acli ed a movimenti nati dalla temperie culturale e religiosa del Concilio e del Sessantotto, come le Comunità Cristiane di Base) rifiutarono il diktat di Fanfani e Gabrio Lombardi, così come le indicazioni – vincolanti – che provenivano dalle gerarchie cattoliche. Così, a causa dell’esito di quel referendum, il sistema di potere si incrinò; la Dc – o almeno la parte più matura di essa – cominciò a rendersi conto che la vita democratica, che si basava ancora sull’esclusione dei comunisti, rischiava l’involuzione. In questo contesto di timide aperture a sinistra e di tentativi di aprire un dialogo con il Pci, nel 1976 molti di noi cattolici di sinistra si ritrovarono, ospiti di padre Ernesto Balducci, alla badia fiesolana, per decidere quale potesse essere il nostro contributo a questa fase nuova che si stava aprendo. Il Pci ci aveva chiesto esplicitamente di  entrare nelle sue liste come indipendenti. In linea generale tutti si mostrarono d’accordo. Solo che alcuni preferivano proseguire il dialogo tra cattolici e comunisti animandolo come intellettuali, senza un coinvolgimento diretto  nell’azione politica; altri – tra questi io – ritenemmo invece necessario esporci in prima persona. Non eravamo solo cattolici; tra noi c’erano anche personalità come il pastore valdese Tullio Vinay. Così, dopo le elezioni, nacque la componente cristiana di Sinistra Indipendente, che raggiunse in Parlamento il senatore Ossicini, l’ultimo erede di quella Sinistra cristiana che con Franco Rodano era in gran parte confluita nel Pci nel 1945.
A tuo giudizio cosa resta del lavoro fatto da Sinistra Indipendente dal 1976 al 1992, anno del suo scioglimento?
Certamente la prova che si poteva fare politica, da cristiani, a sinistra e anche fuori dall’egida della Democrazia Cristiana. Poi, più concretamente, il contributo determinante all’attività parlamentare, soprattutto per alcune leggi cruciali, che altrimenti oggi non ci sarebbero o sarebbero assai diverse, da quella sull’aborto a quella sulla chiusura dei manicomi, dalla legge Gozzini sull’umanizzazione delle carceri, all’obiezione di coscienza, fino al commercio delle armi, per non parlare delle battaglie per un’altra linea nel sequestro Moro, per il disarmo nucleare, per la pace, contro la guerra del Golfo, fino alla proposta (con la “lettera ai comunisti” scritta insieme a Claudio Napoleoni[2]), di un altro sbocco alla crisi del PCI, per “un’uscita dal sistema di dominio e di guerra”.
Quali credi siano stati invece i limiti di quella esperienza?
Sinistra Indipendente non è riuscita a realizzare un progetto politico a sinistra organizzato e strutturato. Ma io non ho mai avuto quest’obiettivo. Ero eletto nelle liste del Pci e per me, che provenivo dal mondo cattolico e da imprese giornalistiche come la direzione del Popolo e dell’Avvenire d’Italia  era un’esperienza traumatica. Ero estraneo a quella realtà associativa, ai comizi, alla vita delle sezioni, all’iconografia, al linguaggio ed alla cultura comunista. Per me si è trattato di una grande scoperta, e la mia decisione fu di essere del tutto leale nei loro confronti. Ricordo che nella prima campagna elettorale, nel 1976, girai molto per incontri e comizi in piazza e nelle sezioni del partito. I miei discorsi suscitavano curiosità e diffidenza nei militanti comunisti, ma anche grandi consensi. Una volta sentii un militante dire a un compagno di partito: “Questi sono così bravi che vedrai che alla fine ci fregano”. Ecco, in quel momento pensai che io non li avrei mai “fregati”. Per questo non ho mai pensato a costruire o a prendere parte ad una realtà politica che fosse in competizione con il Pci e avesse l’intento di distruggerlo. Altri poi lo hanno fatto, ma quelli erano comunisti.
Al “nostro Novecento” hai dedicato un libro. Sei stato tra i testimoni e tra i protagonisti di un secolo particolarmente rilevante nella storia italiana ed occidentale. In che senso ti senti “figlio” del Novecento?
Il Novecento è stato un secolo affascinante, insieme grande e terribile, entusiasmante e tremendo, sicuramente uno dei periodi più intensi e significativi della storia dell’umanità, almeno in Occidente. È il secolo che ha prodotto i fascismi e il nazismo, terribili genocidi e la Shoà, la bomba atomica e atroci guerre, ma ha anche prodotto il costituzionalismo, il Sessantotto, il Concilio, grandi e importanti riforme, esperienze culturali e politiche di enorme rilevanza e portata storica: Il Novecento ha dato fondamenti alla pace attraverso il diritto internazionale, ha elaborato la dottrina della nonviolenza, ha visto popoli interi insorgere e liberarsi dall’oppressione che li attanagliava. Non è stato affatto, secondo me, un «secolo breve»; io ho avuto la fortuna di attraversarlo in gran parte e ne sono stato profondamente segnato. E penso che sia stato proprio a causa degli orrori della guerra, degli esiti perversi cui avevano condotto le dottrine politiche e antropologiche della modernità, a porre l’esigenza incoercibile di pensare tutto di nuovo, l’uomo, lo Stato, la guerra, la pace, il diritto, l’ordine delle nazioni. Anche per queste ragioni il Novecento ha lasciato una grande eredità che a mio giudizio consiste in tre grandi eventi anzitutto per l’Italia ma poi anche per il mondo: la Costituzione, il Concilio, e il Sessantotto..
Hai spesso sostenuto che nella Chiesa il vero Sessantotto è stato il Concilio. Come mai?
Intanto già a livello individuale per me il vero Sessantotto è stato il Concilio. In parte perché il 1968 l’ho vissuto lontano dall’Italia, negli Stati Uniti, percependo così di quello straordinario movimento gli aspetti più legati alla lotta contro la guerra in Vietnam, o a quella per i diritti civili; ma soprattutto perché il Concilio era per me il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo, perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, ma avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale. E invece il Concilio stava elaborando una nuova comprensione e un nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, come papa Giovanni aveva chiesto fin dal suo discorso di apertura.  Per questo, grazie anche al contributo determinante di uno studioso come Giuseppe Alberigo e della sua Scuola di Bologna, alla fine è stato rovesciato il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Vaticano II: esso è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Più in generale, credo davvero che il Concilio sia stato il Sessantotto della Chiesa, oltre che l'innesco del Sessantotto nel mondo. Almeno per i cristiani, i due eventi non dovrebbero essere disgiunti. II Concilio ha costituito un elemento di contraddizione per la Chiesa, perché, dopo aver tanto combattuto il mondo e averne esecrato la secolarizzazione e averlo descritto come perverso e perduto, col Concilio la Chiesa si è finalmente riconciliata con esso. Ma il Vaticano II ha avuto anche il merito di anticipare e preparare il Sessantotto del mondo, dopo che nella Chiesa lo aveva già portato: aveva aperto le cortine del tempio, aveva fatto correre il vento dello Spirito nelle parrocchie, nei conventi e nei seminari; e la stessa Chiesa romana, di cui si diceva che fuori di essa non vi fosse salvezza, era stata ripensata come storica e relativa. E se il Sessantotto fu una grande rivendicazione di libertà, fondata sulla priorità del soggetto sulla legge e sulla riconciliazione di ciascun essere umano con se stesso, il Concilio prima del Sessantotto aveva dato alla libertà un fondamento divino, perché l'aveva rintracciata nel comportamento di Cristo e degli apostoli; inoltre aveva strappato il concetto di libertà alla contrapposizione con la verità, radicando la libertà nell’inviolabilità e nella “sacralità” della coscienza, i cui dettami ognuno è tenuto a seguire, senza essere "né costretto né impedito". Inoltre, il Concilio ha voluto abbattere il muro di inimicizia tra le diverse confessioni cristiane, salutare i segni di grazia e le vie di salvezza presenti nelle altre religioni, apprezzare quanto di buono e di giusto vi fosse in tutte le culture e in tutti gli esseri umani. Il Sessantotto aveva detto fate l'amore e non la guerra. Il Concilio la guerra l'aveva condannata, pur senza riuscire a condannare la bomba atomica come tale; quanto all'amore, gli aveva tolto quel carattere strumentale che secondo la Chiesa lo rendeva illegittimo se vissuto al di fuori della procreazione, e lo aveva elevato alla dignità di fine, come miracolo di unione tra le persone, pur senza rinunciare a riservarlo al matrimonio.
Proprio nel 1968 tu dopo aver lasciato la direzione dell’Avvenire d’Italia passavi alla Rai di Bernabei. Che ricordo hai di lui?
Un bellissimo ricordo. Era un uomo di grande intelligenza, che aveva un progetto per la televisione di ampio respiro e larghe prospettive. Certo, ovviamente per lui la televisione era soprattutto un “elettrodomestico” – come diceva - destinato ad orientare l’opinione pubblica e credeva che ciò dovesse realizzarsi secondo la sua visione ideologica, la sua prospettiva politica e religiosa. Aveva però anche consapevolezza che la televisione dovesse essere uno strumento di alfabetizzazione, di informazione, di cultura, che aiutasse a conseguire consapevolezza e cittadinanza matura; e in fondo rispettava l’autonomia di chi lavorava per l’azienda. Personalmente devo dire che negli anni in cui sono stato in Rai non mi è mai capitato di subire censure di tipo politico o che un servizio da me realizzato non venisse mandato in onda..
E più in generale che bilancio fai di quelle esperienze professionali?
Io ho accettato l’incarico all’Avvenire d’Italia anche se dal punto di vista professionale per me – che venivo dalla direzione del Popolo – un giornale locale come l’Avvenire d’Italia non rappresentava certamente un avanzamento. Ma non volevo fare carriera nei giornali di partito; lavoravo sì per la DC, ho cominciato il mestiere nei suoi giornali, come era normale allora per un cattolico come me, proveniente dalla FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), però non mi sono mai iscritto alla DC, e questo non era affatto regolare. Ma a me non piaceva che le due cose fossero confuse, per me la professione doveva essere “indipendente”. Perciò accettai l’offerta che mi venne da Bologna di dirigere il giornale cattolico. Lo feci con grande libertà: il cardinale Giacomo Lercaro garantiva per noi nei confronti dei vescovi che criticavano e attaccavano la nostra linea, talvolta perfino la pubblicità. Nel 1964 Paolo VI  chiuse il Quotidiano di Gedda, che era il giornale cattolico di Roma, ma che era nettamente caratterizzato per il suo taglio conservatore, assegnando all’Avvenire d’Italia la sua area di diffusione a Roma e nel Sud. Si può quindi dire che divenimmo il quotidiano nazionale dei cattolici. Poi quando, finito il Concilio, il clima mutò, il controllo azionario del giornale passò nelle mani della Santa Sede che, impegnata a “normalizzare” la Chiesa dopo il Concilio, decise di chiuderlo e di dar vita a Milano all’Avvenire, dandolo in proprietà ai vescovi. Così, dopo le mie dimissioni e un periodo di disoccupazione, in Rai dovetti imparare un nuovo mestiere, perché il giornalismo televisivo è totalmente diverso da quello della carta stampata. Grazie all’esperienza in Rai ho potuto però viaggiare molto, e conoscere Paesi che difficilmente avrei potuto osservare e tentare di capire così dall’interno, come l’America del Sud, la Palestina e il Medio Oriente, il Vietnam e la Cambogia. Non ho mai unito lavoro e turismo; cercavo di immergermi nella realtà del posto dove mi trovavo, incontrare le gente e capire gli eventi  Tutto il resto sarebbe stata una distrazione.
La legge sull’ aborto è forse una delle leggi che – a distanza di anni – più ha mostrato la sua resistenza alle critiche.  L’articolo 1 lo hai scritto tu, ma tutto l’impianto di quel testo è il frutto del contributo tuo e dei senatori di Sinistra Indipendente. Quale fu il senso del vostro contributo al dibattito parlamentare sulla 194?
Penso che se la legge sull’aborto è stata accettata dalla coscienza pubblica, anche cattolica, superando referendum e giudizi di costituzionalità, è perché la legge uscita dalla prima lettura della Camera, che aveva un impianto sostanzialmente legato alla visione individualista e radicale, è stata poi completamente ripensata e riscritta dal Senato.  Per noi la questione non era pensare il diritto all’aborto come un diritto di libertà, come una conquista civile, anche se cercammo di capire senza astio questa posizione; piuttosto ci angustiava il trattamento penale e il carcere per le donne e ci sembrava ormai improcrastinabile (tanto da cominciare a dibatterne prima ancora di entrare in parlamento) una regolamentazione condivisa dell’interruzione di gravidanza, sottraendola alla clandestinità ed ai rischi per la salute delle donne. Al di là dei casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione su una eventuale interruzione di gravidanza doveva ovviamente spettare alla madre, che però a nostro giudizio, andava aiutata in questa scelta da un consultorio pubblico o convenzionato, e alla quale si doveva lasciare un periodo di riflessione di dieci-dodici giorni prima dell’intervento. Questo aspetto della legge è stato spesso trascurato, ma per noi aveva una importanza fondamentale, perché in questo modo l’aborto non era più un fatto esclusivamente individuale, ma veniva socializzato, in quanto l’istituzione si poneva accanto alla madre e si faceva carico delle ragioni per cui intendeva abortire. La socializzazione del problema, secondo la nostra idea, avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Il consultorio avrebbe dovuto garantire un’adeguata offerta di sostegno reale da parte delle istituzioni. Si trattava di una costruzione estranea all’ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, femministi e in parte dai socialisti; la legge non ammetteva che l’aborto fosse usato ai fini della limitazione delle nascite, ma non si intrometteva nel rapporto tra la donna e il concepito, riconoscendole il potere della decisione. Alla fine anche il titolo della legge votata dalla Camera venne cambiato, e da «Norme sull’interruzione della gravidanza», divenne «Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza».
Tra le ragioni che ci spinsero a  impegnarci per mettere mano ad una legge sull’aborto, ci fu anche il fatto che eravamo estremamente allarmati per il tentativo di giustificazione etica di una tale legislazione che era stato fatto, nel corso di una analoga discussione in Francia, dalla prestigiosa rivista dei gesuiti Etudes. Essa, per legittimare in determinati casi l'aborto, introduceva una distinzione tra “vita umana” e “vita umanizzata”. Non basta, affermava Etudes, nascere fisicamente per essere uomini; occorre che il bimbo venga riconosciuto come essere umano e introdotto in un mondo di relazioni umane. Era un principio molto pericoloso, perché il mondo è pieno di esseri umani non riconosciuti, scartati, e trattati come “non umani”.
Nel 1978 avvenne anche il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Tu lo conoscevi sin dai tempi della direzione del Popolo. Del suo assassinio ti sei occupato come membro della prima commissione di inchiesta istituita sul caso Moro (presentando, da solo, una delle relazioni di minoranza). Che idea ti sei fatto delle ragioni di quell’assassinio?
Ho compreso ben presto che quell’omicidio era un “delitto internazionale”, dettato dalla volontà di molti soggetti di troncare l’azione politica di Moro, il quale stava cercando di mettere al sicuro la democrazia italiana estendendo ai comunisti la responsabilità di governo. Moro era l’unico che potesse realmente attuare quel disegno politico. Perciò ne è  stata decretata la morte, di cui le Brigate Rosse sono state lo strumento, anche se lo sono state rozzamente, forse addirittura senza rendersene conto.
Tu che hai attraversato così intensamente i decenni della vita politica ed ecclesiale dal dopoguerra a oggi, quali pensi siano le prospettive future della Chiesa e della società italiane?
Non sono un veggente. Posso solo esprimere un auspicio, legato a ciò per cui mi sono impegnato tutta la vita e che ancora non vedo realizzato ma di cui vedo tuttavia l’inizio. Penso che la Costituzione, il Concilio e il Sessantotto debbano ancora dare il meglio di sé e della loro eredità. Il Sessantotto ha rappresentato la rivoluzione della vita quotidiana, l’esplosione dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia. Era un segno dei tempi; ma né la Chiesa, né i partiti e le istituzioni lo hanno voluto leggere in questo senso e quindi ne è stata soffocata, ma certamente non spenta. l’energia. Il Concilio è stato sterilizzato per cinquant’anni, ma ora papa Francesco ne ha fatto un nuovo inizio per la Chiesa; il clericalismo è messo da lui stesso sotto scacco, la Chiesa visibile che già aveva perduto il potere temporale è chiamata a lasciare anche il potere spirituale (il potere, non lo Spirito!) rinunziando a presentarsi come l’esclusiva dogana di Dio sulla terra; la stessa laicità, a partire da una Chiesa presentata come ospedale da campo e come servizio, da un Dio annunciato come nonviolento e da un’umanità considerata tutta intera come “popolo di Dio”, dovrà essere compresa e declinata in un altro modo. E quanto alla Costituzione l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre ha mostrato un’intelligenza politica popolare tutt’altro che spenta, su cui si può puntare per una ripresa non solo del costituzionalismo, interno e internazionale, ma del cammino stesso della civiltà, che appare oggi interrotto, o in ogni caso senza più un orientamento e una bussola.
Dal punto di vista personale, che senso dai alla tua vita, all’impegno ecclesiale e politico che dura ormai da settant’anni?
Questa è una domanda troppo grande, non ho disponibile la risposta, non sono mai stato propenso a ricognizioni e anamnesi individuali…
Forse per un motivo legato al contesto storico, sociale ed ecclesiale nel quale è cresciuta e vissuta la tua  generazione, perché oggi la maggior parte delle persone non credo riuscirebbero a percepirsi se non in termini strettamente individuali.
È stato bello pensare agli altri, era come stare fuori da se stessi, senza troppe introspezioni e senza retaggi invadenti e trattenute nel passato. Può darsi che ciò dipenda dal fatto che a otto anni ho dovuto smettere di pensare in termini individuali a me stesso, perché morì mio padre, Renato La Valle, che era una firma importante del giornalismo messa a tacere dal fascismo, e mia madre restò sola a portare avanti una famiglia con tre bambini, io e le mie due sorelle Fausta e Fidelia. Venne la guerra, c’erano le bombe e la fame, i miei primi guadagni sono stati da lavoro infantile. Molto presto, non certo per merito mio, ho sentito cosa fosse  la responsabilità per gli altri e con gli altri: all’inizio la famiglia paterna (lo chiamavamo “il  carrozzone”, con quattro ruote e senza timone), poi l’università, poi il consorzio coniugale, il giornale, la politica, la Chiesa, il mondo… Anche in quest’ultima occasione, quando stavo in ospedale per uno scherzo del cuore, ho detto ai medici dell’unità coronarica: datemi due ore e fate entrare mia nipote per dettarle una lettera, altrimenti perdiamo il referendum, poi fatemi tutte le cure che volete… Dopo ho aspettato tranquillamente il 4 dicembre. Credo sia la prima volta che racconto tutte queste cose.

*Da Micromega, n. 3/2017, “Nel corso di una vita”, una conversazione con Valerio Gigante.


[1] R, La Valle, Cronache ottomane di Renato La Valle. Come l’Occidente ha costruito il proprio nemico, Bordeaux edizioni, Roma 2016.
[2] Lettera che, nel 1986, un gruppo di parlamentari e decine di firmatari avevano indirizzato al XVII Congresso del Pci. “La Lettera ai comunisti italiani”, di cui Napoleoni era primo firmatario insieme a Raniero La Valle, è pubblicata in C. Napoleoni, Cercate ancora, a cura di R. La Valle, Editori Riuniti, Roma 1991.

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