venerdì 12 maggio 2017

I cinquantacinque giorni di Moro nell’Edizione Nazionale delle opere



Il memoriale e le lettere dal carcere saranno presenti negli “Scritti” e “Carteggi” dell’Opera omnia pubblicata in forma digitale. Una riparazione storica

Raniero La Valle

           Le lettere di Moro dal carcere delle Brigate Rosse erano veramente sue, non si dice più che non si possono a lui attribuire. Giovedì 10 maggio nella sede dell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica è stato presentato il piano dell’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro che saranno pubblicate in forma digitale con il patrocinio e con i soldi del ministero dei beni culturali. Vi troveranno posto gli scritti di Moro durante i 55 giorni della sua prigionia. È stato infatti annunciato che il memoriale scritto dal prigioniero, che fu in seguito trovato nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, sarà pubblicato nella prima sezione, “Scritti e discorsi” dell’Opera omnia, e le lettere saranno inserite nella terza sezione, quella dei “Carteggi”. Si tratta di una riparazione e di una restituzione: lo Stato che aveva tolto a Moro la sua identità e la sua parola, ora gliela restituisce, perché almeno ne resti integra la memoria.

Durante il sequestro, avvenuto il 16 marzo 1978, Moro scrisse diverse lettere a vari interlocutori istituzionali e politici, per opporsi alla “linea della fermezza” adottata dal sistema politico per negare, in nome della ragion di Stato, qualsiasi trattativa con i brigatisti per la sua liberazione, e sostenne, dal profondo della sua cultura giuridica e della sua sapienza politica, un altro modo, più fecondo e più umano, di considerare la “ragion di Stato”. Incapace di gestire questo dissenso con lo statista prigioniero, il sistema politico italiano, di cui la DC era il centro, rispose scegliendo la strada della negazione, dicendo che Moro nelle mani dei brigatisti non era più Moro, e che le sue lettere, scritte di suo pugno, non erano attribuibili a lui. Perciò a Moro fu tolta la parola, dal suo stesso partito, e con la parola l’agibilità politica. Il principale protagonista della politica italiana fu espropriato della sua credibilità e disconosciuto dalla DC e dai maggiori mezzi d’opinione. Così fu confiscata la sua identità. Mentre le Brigate Rosse credevano di avere in mano, con Aldo Moro, il “cuore dello Stato”, il mondo politico faceva un’operazione esattamente inversa: il Moro prigioniero non era il presidente della DC, il presidente della DC era altrove, era in un al di là non meglio precisato, da cui non poteva nuocere; Moro nelle mani delle BR non era Moro, le lettere non erano sue, le sue parole non erano riconducibili a lui.
Già alla prima lettera dal carcere, prima di ogni possibile verifica, veniva operato questo sdoppiamento; da quel momento cessava il problema politico del presidente della DC in mano alle BR, cioè del rovesciamento che per tale via si stava imponendo alla politica italiana per un secco ritorno all’anticomunismo, e nasceva il problema umanitario, di un falso Moro che era sotto sequestro, che era un uomo come gli altri, che rientrava nella norma comune, e a cui il massimo di risposta da dare era una risposta di tipo umanitario, senza l’assunzione di alcuna responsabilità politica che non fosse quella del rifiuto di ogni trattativa e della ricerca (in verità non troppo sagace) del covo in cui era tenuto nascosto. In  questo sdoppiamento ed esproprio della personalità di Moro, la DC attuava in modo rovesciato la parola evangelica che dice: non temete quelli che possono prendere il vostro corpo, ma non possono possedere la vostra anima. La DC lasciava il corpo ai carcerieri, e ne sequestrava l’anima, decideva lei che cosa fosse, come dovesse essere, come dovesse parlare il vero Moro, cioè la sua anima. E siccome questa finzione non poteva durare troppo a lungo man mano che si succedevano le lettere di Moro e che Moro stesso rivendicava la loro autenticità, né il disconoscimento dell’identità di Moro era più a lungo credibile finché venisse fatto da un corpo politico che come tale non sa nulla dell’anima, ecco che alla fine, su consiglio di un esperto americano, consigliere di Cossiga, Pieczenik, vennero fatti scendere in campo gli amici di Moro, quelli che venivano dalla sua stessa esperienza della FUCI e dei Laureati cattolici, che lo conoscevano bene, e che Moro con amarezza rimprovererà per nome, Veronese, Scaglia, mons. Zama; e questi, come gli amici di Giobbe che intervengono maldestramente nella disputa intorno alle colpe di Giobbe per il male che lo ha colpito, scriveranno il 26 aprile che “Aldo Moro non è presente nelle lettere scritte a Zaccagnini”. Ciò a cui Moro replicò scrivendo il 27 aprile: “Devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all’avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse”.
Operando in tal modo, Moro ruppe il meccanismo sacrificale (“è bene che uno solo muoia per tutto il popolo”) nel quale la razionalità politica aveva cercato di nascondere il rifiuto a cercare una soluzione politica della crisi da parte di un potere che in tal modo cercava semplicemente di difendere e conservare immutato se stesso. Moro rompe il meccanismo non accettando di essere vittima, offre delle alternative politiche al sacrificio. Questo fu il vero conflitto. Quello che venne attribuito alla sua debolezza, al desiderio di salvare la sua vita, fu invece in Moro un grande atto politico e pubblico, la protesta e il grido contro tutte le violenze che nella storia si sono mascherate e si mascherano dietro la pretesa salvifica del sacrificio. Moro protesta la sua innocenza ma non vuole che della sua innocenza si faccia un trofeo religioso, il mito del democristiano caduto, l’emblema della dedizione, fino al sacrificio, allo Stato e al partito. Per questo non volle le autorità ai suoi funerali. Dalla sua innocenza egli fece appello invece alla laicità del diritto, a Cesare Beccaria, alla oggettività delle garanzie, alla stessa Costituzione, in ciò pienamente moderno, in ciò pienamente cristiano.
Ora l’iniziativa pubblica per l’edizione nazionale di tutte le sue opere, né è un tardivo, ma molto apprezzabile, riconoscimento.  
    

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