venerdì 2 ottobre 2015

CHI TRADISCE CHI

Palermo, 23 settembre 2015 
«Gesù disse ai Dodici: “ uno di voi mi tradirà”», Mc. 14,18-19
Discorso tenuto alla settimana alfonsiana di Palermo il 23 settembre 2015
           
Il tema del tradimento di Gesù è un tema molto delicato, che va maneggiato con prudenza, perché usarlo senza discernimento può produrre conseguenze devastanti, come le produsse l’accusa di deicidio. L’accusa di aver tradito Gesù è molto prossima all’accusa di deicidio, e l’asserito tradimento di Dio legittima gli zelanti a prendere le difese di Dio, a mettersi al posto di Dio per vendicarlo, e ciò è bastato storicamente a riempire il mondo di violenza. Le religioni e le Chiese lo hanno fatto molte volte; il fanatismo che si pretende islamico lo sta facendo anche adesso. Ma non c’è neanche bisogno di essere credenti per difendere Dio e farsi vindici di lui: gli atei devoti si stracciano le vesti in nome di un Dio in cui non credono, il fascista ungherese che manda i poliziotti e i cani a fermare l’esodo dei profughi, lo fa in nome di un’Europa che “non può non dirsi cristiana” e che perciò vuole bianca, pura e spietata.
            Bisogna stare attenti nell’usare la categoria del tradimento perché ci sono molti pretesi tradimenti che non lo sono affatto. Quello che gli uni soffrono come tradimento, può essere invece una prova di lungimiranza, o anche di misericordia e di amore. Quando cinque cardinali, contrastando le intenzioni del papa sulla comunione ai divorziati risposati scrivono un libro intitolato: “permanere nella verità di Cristo”, di fatto accusano il papa di tradire il Cristo e la sua verità.

La reazione di Paolo VI

            Ma se un papa può essere vittima di un’accusa di tradimento della fede e del suo stesso ministero, un papa può anche perdere un po’ il senso della misura e accusare di tradimento i suoi figli, quando sono figli che aprono nuove strade, come è successo  a Paolo VI quando gli è venuto a mancare il coraggio di proseguire sulla via del Concilio.
            E’ accaduto nel 1976.

            Il Concilio aveva chiuso formalmente l’età costantiniana, aveva detto che la Chiesa non doveva più contare sul potere politico e l’imperio delle leggi, aveva affermato la reciproca autonomia della comunità politica e della Chiesa, aveva revocato la legittimazione teologica e il vincolo disciplinare dell’unità politica dei cattolici, e pertanto ci furono dei cattolici che per le elezioni politiche del 1976 decisero di rompere il blocco storico della Democrazia Cristiana e di presentarsi come indipendenti nelle liste comuniste. Ciò suscitò l’ira della gerarchia, ma aprì in tutta la Chiesa italiana uno straordinario dibattito, che fu molto vivo anche qui a Palermo, su un modo nuovo di intendere il rapporto tra fede e politica.
            I vescovi deplorarono quella scelta e Paolo VI la prese come una specie di offesa personale, avendo sempre sostenuto la Democrazia Cristiana e considerandola come uno strumento della Chiesa italiana e dello stesso Pontificato, anche se non in chiave cesaro-papista ma maritainiana. L’arrabbiatura di Paolo VI fu tanto maggiore dati i nomi dei cattolici che avevano fatto quella scelta, tutti a lui ben noti e alcuni particolarmente cari; i nomi erano quelli del prof. Paolo Brezzi, di Adriano Ossicini, Raniero La Valle, Mario Gozzini, Piero Pratesi. D’altra parte Paolo VI non era nuovo a durezze e a gesti di autorità tassativi pur nei confronti di persone a lui molto vicine, magari anche per un dissenso politico. Otto anni prima aveva deposto il cardinale Lercaro da arcivescovo di Bologna dopo che il cardinale nella cattedrale di Bologna aveva condannato i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, dichiarando che la via della Chiesa non era quella della neutralità, e perciò del silenzio, ma quella della profezia. Così di fronte ai cattolici che si erano presentati “in liste inconsuete” – come dirà poi il vescovo Bettazzi – Paolo VI la prese assai male e li accusò di tradimento.   
            Era il mercoledì 12 maggio 1976, le liste erano state appena presentate per le elezioni che si sarebbero tenute il 21 giugno. Nell’udienza generale il papa evocò la triste condizione del cristiano che, come Gesù “incontrerà nel mondo l’opposizione, la persecuzione, l’ingiustizia”. Anzi, aggiunse, «incontrerà fra gli stessi fratelli di fede, la discordia, l’avversione e perfino il tradimento: “i nemici dell’uomo, ha pur detto Gesù, saranno quelli della sua casa”». E qui Paolo VI formulava il suo anatema, così esplicito che gli mancava solo il nome dei destinatari; e diceva: “come è comune, vicina a noi, oggi, questa sofferenza! Talvolta gli amici più cari, i colleghi più fidati, i confratelli della medesima mensa sono proprio quelli che si sono ritorti contro di noi! La contestazione è diventata abitudine, l’infedeltà quasi affermazione di libertà”.
            I pellegrini che partecipavano a quell’udienza generale naturalmente non capirono affatto con chi il papa ce l’avesse; né poteva capirlo la Chiesa a cui il papa si rivolgeva in tutta la solennità del suo magistero; in realtà Paolo VI parlava di sei-sette persone che come esploratori avevano sondato un cammino, su cui tutti poi avrebbero camminato, ma che per lui erano “i figli che hanno tradito”. E la domenica successiva, 16 maggio, affacciandosi per il Regina Coeli alla finestra di San Pietro rincarava la dose, alludendo a non meglio precisate “congiunture” in cui erano in gioco “la fedeltà e la coerenza”e diceva: “preghiamo per quanti sono tentati di debolezza, di opportunismo, di viltà; preghiamo per quelli che soffrono, per la coerenza alla verità, alla giustizia, alla carità, affinché forti rimangano”, e qui forse pensava a quelli che restavano democristiani. Rivista quasi sessant’anni dopo, appare chiaramente come questa posizione di Paolo VI fosse viziata da un errore di analisi: il tentativo di stabilire un rapporto positivo con i comunisti, per salvare la democrazia italiana, e la pace stessa, tentativo che il papa metteva in conto all’incoerenza, all’opportunismo e alla viltà, ben presto avrebbe mostrato la sua eroica qualità etica e la sua necessità politica nella testimonianza cristiana e nel sacrificio di Aldo Moro, martire della “carità politica”; evento così sconvolgente per il papa, che egli non gli sopravvisse.

Chi tradisce se stesso

            Perciò io starei molto attento a parlare di tradimenti, perché è molto difficile dire chi tradisce chi. Del resto perfino su Giuda non abbiamo smesso di discutere da quando tradì Gesù; e Gesù stesso di certo lo ha perdonato, se è vero, come instancabilmente dice papa Francesco, che Dio perdona tutti.
            Tutto ciò per dirvi perché io stasera preferisco non parlare dei tradimenti. Chi può giudicare? In genere sono le istituzioni totali quelle più aduse all’accusa di tradimento, con effetti spesso micidiali.
            Invece vorrei parlare di chi tradisce se stesso, perché mi pare che le tragedie più grandi con cui anche ora abbiamo a che fare sono causate da chi tradisce se stesso. Persone o soggetti collettivi che siano, il vero tradimento è di chi dissipa i propri talenti, stravolge la propria identità e la propria storia, e si consegna per ignavia o per calcolo alle idee e agli interessi dei propri avversari. Perché questo è il significato del verbo tradire: consegnare qualcuno all’avversario, e tradire se stesso vuol dire consegnarsi al nemico, interiorizzarne il dominio.
            L’esempio più eclatante è quello della sinistra che si è consegnata mani e piedi al capitale, del popolo sovrano che ha ceduto la propria sovranità al mercato, del Partito Democratico che liquida gli ideali di cui è erede, straccia proprio in questi giorni la Costituzione e passa all’instaurazione di un regime. E’ un tradimento di se stessi che obbedisce a una sorta di pulsione di morte, come quella che papa Francesco imputa al mondo, quando dice, come ha fatto il 14 settembre a Radio Renascença che “oggi il mondo è in guerra contro se stesso, una guerra combattuta a pezzi che sta progressivamente distruggendo la nostra casa comune”. 

L’ Europa, un tradimento che comincia

            Di esempi di grandi istituzioni che sono state o sono in guerra contro se stesse se ne potrebbero fare molti. Io mi limiterò a parlare di un tradimento che comincia e di uno che finisce.
            Il tradimento che comincia è quello dell’Europa che alza le sue barriere contro i popoli che una volta voleva civilizzare. Forse si potrebbe parlare di un tradimento che continua, perché il tradimento delle sue radici cristiane il vecchio continente lo ha fatto già al momento della cosiddetta scoperta o conquista dell’America, quando l’Europa, e con essa la Chiesa, come ha detto papa Francesco ai movimenti popolari in Bolivia, ha recato offese e compiuto anche crimini contro le popolazioni indigene di quel continente.
            Ma oggi il tradimento delle tanto rivendicate radici cristiane dell’Europa sta andando in scena nel modo più plateale e spettacolare possibile, di fronte agli attuali conflitti. Tutti lo vedono perché se oggi, come ha ricordato il papa il 17 settembre nel discorso al consiglio Cor Unum, “le atrocità e le inaudite violazioni dei diritti umani che caratterizzano questi conflitti, sono diffusi dai media in tempo reale, pertanto sono sotto gli occhi del mondo intero”, anche l’Europa che ringhia e si scontra con queste vittime disperate e inermi è sotto gli occhi di tutti e ogni sera appare in televisione.
            Nella Bibbia si parla delle città di rifugio in cui chiunque poteva cercare riparo e protezione contro i vendicatori che lo volessero uccidere. L’Europa si nega come città di rifugio per i fuggiaschi e per i poveri e si costituisce invece come città del privilegio per i suoi abitanti, da chiudere agli extracomunitari e agli stranieri, per non mettere in comune e non spartire con gli altri il proprio benessere. Gli altri non sono ammessi.
Si potrebbe dire, a proposito del filo spinato e del muro che hanno sigillato le vie di transito in Ungheria, che il caso non fa testo, perché in Ungheria c’è un fascismo, un nazionalismo razzista al potere. Ma prima dell’Ungheria, c’è stata la Francia, che ha bloccato i profughi sugli scogli di Ventimiglia, e in Francia non c’è il fascismo; c’è l’Inghilterra che presidia Calais in nome della Regina; e dopo l’Ungheria c’è la Slovenia, e ci sono gli altri Paesi dell’Europa dell’Est che intercettano i popoli in marcia, vorrebbero fermarli, rimandarli indietro, chiuderli in prigioni ed in ghetti. Ma oltre all’Ungheria, alla Slovenia, ai Paesi dell’Est, c’è in realtà tutta l’Europa che tiene le frontiere chiuse, che non vuole essere né contaminata né invasa, che apre i confini al denaro e alle merci ma li chiude alle persone, che con i suoi trattati, con Dublino, con Schengen si chiama fuori dal mondo, si illude di chiudersi in un cerchio magico, rifiuta di stare insieme e di mischiarsi con i popoli vicini. E l’Italia non è da meno. C’è una grandissima ipocrisia in Renzi, in Alfano, che si appellano all’Europa. Ma l’Italia è l’Europa! Perché non comincia lei ad aprire le sue frontiere, a permettere ai fuggiaschi, per guerre o per fame, ai perseguitati, ai richiedenti asilo, ai migranti, di arrivare in Italia, negli aeroporti e nei porti con aerei e navi di linea, e non chiusi nelle stive e abbandonati alle onde sui barconi o nascosti nei cassoni dei TIR?
E’ la stessa ipocrisia che Renzi ha usato nella condanna alla Grecia; dice di aver chiesto clemenza all’Europa, all’Eurogruppo, ma l’Italia è l’Europa, è sovrana nell’Eurogruppo, non meno della Germania, perché non ha condonato il suo credito alla Grecia, perché anche lei le ha imposto condizioni capestro?
L’Italia e l’Europa con la scelta in atto – con l’eccezione ora, grazie a Dio, di Angela Merkel – si pone non come la casa comune di un’accoglienza cristiana, ma come una società dell’esclusione, dello scarto, dei respingimenti, dei rimpatri forzati, delle quarantene concentrazionarie.
E qui c’è davvero per l’Europa il tradimento delle sue origini. Perché fu un grande papa, Gregorio Magno, che nel VI secolo, di fronte alla crisi dell’Impero sotto la pressione dei popoli migranti ed invasori, invece di indire crociate per la sua difesa proruppe in un inno di gioia, perché nuovi popoli si affacciavano alla storia e stava nascendo l’Europa, e la parola del Vangelo poteva giungere là dove si erano parlate fino ad allora le lingue dei barbari. “Dov’è il Senato? – esclamava – Dov’è il popolo? … Tutto è bollito”. Ed era così angustiato che smise perfino di commentare il Vangelo al popolo di Roma: ma la gioia era che la storia continuava e si apriva all’universalità.
Un’Europa sterile e stanca, come papa Francesca l’ha definita parlando al Parlamento europeo, un’Europa non madre ma nonna, che non genera né figli né idee, che tributa sacrifici di sangue al dio denaro che ha eletto a suo sovrano, è un’Europa che nega le sue origini, che tradisce se stessa, che tradisce i poveri che vorrebbe tenere lontano da sé, e tradisce anche gli ideali dei suoi Padri fondatori del Novecento, che la volevano unita, ma con gli altri, non contro gli altri. E tuttavia bisogna anche chiedersi se l’Europa è quella dei governanti che oggi la deturpano, o se l’Europa è quella dei viennesi che soccorrono i profughi e dei contadini croati che non tagliano le pannocchie di mais ai confini dell’Ungheria per permettere ai migranti di passare nascosti nei campi.

La Chiesa, un tradimento che finisce.

Per un tradimento che comincia, ed anzi che continua, c’è un tradimento che, felicemente,  finisce. Ed è il tradimento di cui si poteva accusare la Chiesa. Perché anche la Chiesa ha tradito se stessa, quando per mille anni, sequestrando la parola di Dio, ha voluto costituirsi come potere terreno alterando così la stessa immagine di Dio che aveva la missione di trasmettere e di annunciare.
E’ chiaro che non parliamo della Chiesa eterna, corpo di Cristo, che non può tradire; parliamo della Chiesa istituzionale e visibile nella quale, come dice il Concilio, la Chiesa di Cristo “sussiste” senza tuttavia esaurirsi in essa.
Certo, qualcuno si può inquietare a sentir parlare del tradimento della Chiesa. Eppure non solo Giuda ha tradito, anche Pietro ha tradito, quando non ha voluto farsi riconoscere come seguace del Signore o quando si è opposto alla lavanda dei piedi, tanto che il Signore gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai.
E per secoli Pietro e la Chiesa non hanno capito, se nel momento supremo della visita al Santo Sepolcro a Gerusalemme, nella sua preghiera Paolo VI ha potuto dire: fedeli infedeli tante volte siamo stati.
In che cosa è stata infedele la Chiesa, in che cosa ha tradito la sua ragion d’essere?
Il compito della Chiesa era di dare continuità all’incarnazione, di perpetuarne l’insegnamento ed i frutti. L’incarnazione era avvenuta perché Gesù facesse conoscere il vero volto di Dio, perché sfatasse le false rappresentazioni di Dio, svelasse i segreti di Dio, come dice il Concilio, facesse l’esegesi del Padre, come dice il Vangelo di Giovanni, e con questo Dio liberato dalle contraffazioni e dai fraintendimenti stabilisse la nuova comunione di tutti gli uomini. Continuando ad esercitare il ruolo di Gesù, la Chiesa doveva porsi come perenne smentita e critica delle false rappresentazioni di Dio, e come svelamento e trasparenza della vera identità e del vero sentire del Padre.
Ma perché nell’economia divina c’è stato bisogno dell’incarnazione per far vedere Dio, e perché c’è stato bisogno che essa continuasse nella Chiesa?
La ragione è che su Dio ci si può sbagliare. Si può prendere per Dio qualcuno o qualcosa che non è affatto Dio.
Dio infatti è vicino e lontano, conoscibile e inconoscibile, svelato e nascosto, invasivo e discreto, e perciò è molto facile sbagliarsi su Dio, perciò il mondo è stato sempre pieno di falsi dii, di idoli, e Dio è stato mal capito, mal pregato, frainteso. Tutta la storia, anche la storia che i padri della Chiesa chiamavano sacra, è stata una storia di una progressiva ma contrastata conoscenza ed esperienza di Dio, e anche di progressivi svelamenti e nascondimenti di Dio. Ci sono molte storie di Dio, anche nella Bibbia, da cui emerge un Dio poco credibile.
Un recente documento della Commissione Teologica Internazionale, cioè dei teologi del papa, su cui torneremo, dice con estrema chiarezza che nella Bibbia ci sono dei fraintendimenti di Dio.
Ora, questa parziale o inferma o errata comprensione di Dio ci può essere anche nelle religioni e nelle Chiese.
Così è avvenuto anche nella Chiesa romana, soprattutto negli ultimi mille anni, a partire dalla rottura tra Oriente e Occidente e dalla riforma papale assolutista e sacralizzante di Gregorio VII. E il tradimento, o l’infedeltà, sono consistiti nel trasmettere al mondo un immagine travisata di Dio, schiacciata sul potere terreno e incapace di promuovere o assecondare il progresso storico; un Dio avverso alla scienza, contrario allo Stato e alle libertà moderne, intollerante delle altre religioni, perfino delle altre confessioni cristiane.
E’con questo Dio che la modernità è entrata in conflitto, è di questo Dio che la secolarità, anche cristiana, ha detto: “facciamo come se Dio non ci fosse”; e la conseguenza è stata quella di una crescente apostasia dalla fede, che ormai si è generalizzata, almeno in Occidente, tanto da rendere attuale la domanda di Gesù: quando tornerò troverò ancora la fede sulla terra? Questa inferma rappresentazione di Dio veicolata dalla Chiesa, è durata fino al Concilio Vaticano II, con il suo “carico di errate preghiere” onde si credeva di rendergli onore, come cantava padre Davide Maria Turoldo, che non a caso è stato così importante nella nostra vita.
Per questo Giovanni XXIII assegnò al Concilio il compito di parlare di Dio agli uomini in modo nuovo, non ripetendo sterilmente le vecchie dottrine in cui aveva trovato “rivestimento” la fede, ma investigando più profondamente (“reinvestigetur) ed enunziando il messaggio cristiano in quel modo che i nostri tempi richiedono, “ea ratione quam tempora postulant nostra”. E questo era il punctum saliens, il punto saliente, il vero cimento del Concilio, diceva papa Giovanni nel suo discorso inaugurale, la Gaudet Mater Ecclesia.
Se ora si legge l’intero corpus dei testi conciliari in quest’ottica, si vede come essi rechino uno splendido ed esaltante nuovo annunzio di Dio, e raccontino una nuova, consolante, inaspettata storia della salvezza, dove non c’è nessuna natura umana decaduta dalla perfezione originaria, dove anche dopo il primo peccato Dio non ha mai abbandonato l’uomo, dove il creato è in evoluzione e dove la perfezione sta alla fine. Questo è stato il vero dono del Concilio, al di là della mal riuscita riforma della Chiesa, questa è stata la sua vera pastoralità.
Questo dono è rimasto tuttavia a ristagnare nella Chiesa per quasi cinquant’anni, sicché non si può dire che questo scarto o ritardo della Chiesa rispetto alla missione di trasmettere la vera immagine di Dio sia stato sanato. Ma il Concilio non è finito l’8 dicembre 1965, esso si prolunga nel pontificato di papa Francesco e continuerà con l’anno santo della misericordia che Francesco ha voluto cominciasse proprio l’8 dicembre di cinquant’anni dopo.
Sicché Concilio, papa Francesco, anno della misericordia non sono tre eventi che si succedono nel tempo, ma sono un unico evento che facendo irrompere nel mondo, in un modo inatteso, il Dio della misericordia, dovrebbe dare avvio ad un tempo nuovo, non solo un anno della misericordia, ma un’età della misericordia.
Perché questa è la novità: un Dio che fin dal primo giorno del suo pontificato papa Francesco ha annunciato come il Dio della misericordia, il Dio che perdona sempre, altrimenti il mondo non potrebbe sussistere, come ha detto una “nonna” di Buenos Aires e Francesco ha riferito nel suo primo “Angelus” alla finestra. Dove la misericordia non è un semplice attributo di Dio, non è uno dei bei 99 nomi di Dio, come dicono i musulmani, ma è l’ermeneutica di Dio, la sua stessa identità, il criterio in base a cui unicamente Dio può essere compreso e professato.
Perché, come ha detto Francesco, nell’Angelus del 6 settembre scorso,, quando ha chiesto a tutte le parrocchie, le comunità e le Chiese di accogliere i profughi, misericordia è il secondo nome dell’amore e nella Bibbia c’è una guglia che sovrasta tutte le altre, è quella nella quale, una sola volta in tutto il libro sacro, nella I lettera di Giovanni, si dice che Dio è amore. E allora si capisce che cosa è venuto a fare papa Francesco, giungendo dalla fine del mondo; è venuto a riaprire la questione di Dio che la modernità aveva chiuso ritenendola ormai superata dal sapere scientifico, dalla tecnologia e dalla globalizzazione. E si capisce qual è il senso di tutto il pontificato di Francesco, il suo carisma e la sua strategia: dare al mondo un nuovo annuncio di Dio, cioè fare esattamente quello che faceva Gesù, e proprio così riparando e sanando l’oscuramento  che era stato fatto di lui.
Gli sbagli su Dio

Ma in che cosa il mondo si era sbagliato su Dio? Una delle più gravi alterazioni dell’immagine divina, sia nelle culture non bibliche, sia nella Bibbia, sia nella storia delle religioni e del mondo fino ad ora, era stata l’immagine del Dio violento. Anche la Chiesa ha offerto l’immagine di un Dio violento, capo di eserciti, pronto a punire, bisognoso di essere placato con espiazioni, dolori e sacrifici.
Ciò fino al Concilio: ma è appunto con il Concilio e poi con i papi fino a Francesco, che la Chiesa prende definitivamente congedo dal Dio violento.
Il 6 dicembre 2013 esce un documento della Commissione Teologica Internazionale, pochi mesi dopo l’elezione di Francesco, ma già in preparazione da tempo con Benedetto XVI, in cui si proclama l’”irreversibile congedo dal cristianesimo”dalle “ambiguità della violenza religiosa” e si afferma che questo congedo dal Dio violento è inseparabile dal futuro del cristianesimo e offre una reale opportunità, anche alle culture secolari e alle altre religioni del mondo “per un ripensamento dell’idea di religione”.
Nessuno può uccidere in nome di Dio; dirà poi il papa Francesco nessuna violenza si può compiere in suo nome; la guerra, ripeterà con papa Giovanni, è una follia.
Non si tratta dell’annuncio di un nuovo Dio: se Dio è oggi proclamato non violento, vuol dire che lo era anche prima; proprio questo del resto è il nucleo della fede trinitaria: sulla croce,  contro la violenza, non è salito un uomo come tanti, ma uno della Trinità: “unus de Trinitate passus est” dice il Concilio di Costantinopoli. E questa verità cristologica, dice il documento romano, non si è mai persa nella Chiesa e ciò ha messo in contraddizione la prassi storica del cristianesimo con la sua autentica ispirazione, spingendolo, “non senza il doloroso passaggio attraverso lo scandalo di pratiche difformi”, verso “la rinnovata conversione alla purezza del suo fondamento”. Però l’eclisse di questo fondamento c’era stata. E ora questo definitivo approdo della Chiesa all’annuncio del Dio non violento costituisce, secondo la Commissione Teologica Internazionale, una “svolta epocale”. Si tratta di riconoscere in questo congedo del cristianesimo dalla violenza religiosa “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato, si tratta di riconoscere la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza che continua”: dunque svolta epocale, nuovo inizio, comincia una nuova età dell’uomo.
Questo dunque è venuto a fare papa Francesco, questa è la risposta alla domanda che egli si è posto all’inizio del suo pontificato: chi sono io, Francesco?
Francesco è venuto ad aprire la porta santa della misericordia, che non è solo la porta santa di San Pietro e delle altre basiliche romane, ma è la porta di ogni casa del mondo, e perfino la porta di ogni cella, perché, come dice l’istruzione per il Giubileo, ogni volta che i carcerati passeranno per la porta della loro cella rivolgendo la parola e il pensiero al Padre, giungerà loro la sua misericordia; perché la misericordia di Dio, dice Francesco, “è capace di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”.
E questo è l’annunzio non solo di un tempo nuovo, ma di un tempo messianico, che va afferrato ora, al suo apparire, perché altrimenti finisce.


                                                                                                                     Raniero La Valle

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