VII Edizione “La Bibbia sulle
strade dell’uomo”
Catanzaro – Cosenza – Messina 20-22
novembre 2014
Vivrai del lavoro delle tue mani (Sal. 127, 2)
Messina 22 novembre 2014
Ci
vuole del coraggio ad assumere come tema di questo Convegno il lavoro, nel
momento della sua massima crisi. Le riflessioni svolte fin qui hanno mostrato
come il lavoro non sia un tema circoscritto,
un segmento dell’esperienza umana, ma investa l’intera esistenza, l’intera
concezione e l’intero destino umano, sia che lo si discuta in sede teorica, sia
che lo si canti nelle canzoni di dolore e di protesta, sia che sia oggetto
dello scontro sindacale e politico. Come ha detto il vice-sindaco di Messina
nel suo intervento di saluto, il fallimento del lavoro, di un lavoro, è il
possibile fallimento dell’esperienza umana.
Pertanto si
può stabilire un rapporto tra lavoro e civiltà, prendere il lavoro come misura
della civiltà, e identificare la storia del lavoro con la storia della civiltà.
E in questo quadro noi possiamo fissare un giorno preciso in cui la civiltà ha
raggiunto il suo culmine: ed è stato nella seconda metà del ‘900 quando in Italia, il 20 maggio 1970, è
stato promulgato lo Statuto dei diritti dei lavoratori; da lì poi è cominciato il
declino, una discesa che ora sta diventando un precipizio.
Ma
è molto significativo che quando nel Novecento il lavoro ha raggiunto la sua
massima forza e il più alto riconoscimento della sua dignità, esso non è giunto
a questo approdo da solo, ma insieme a molte altre istanze sociali e ad altre
conquiste.
Lo Statuto
dei diritti dei lavoratori è arrivato infatti, tra gli anni sessanta e settanta
del secolo scorso, con molte altre cose grandi e preziose.
Il 12
dicembre 1962, come volano d’avvio del centrosinistra si è avuta la
nazionalizzazione dell’energia elettrica
con una legge firmata da Fanfani, Colombo, La Malfa, Tremelloni; essa
consacrava l’idea che le grandi risorse non dovevano essere fonte di
speculazione privata, ma dovevano essere messe al servizio dell’utilità comune.
Il 31 dicembre 1962 era la volta della Scuola media statale obbligatoria, per
una scuola che fosse veramente una scuola di tutti , di cui anche gli sfavoriti, i
disabili fossero al centro; il 6 agosto 1967 arrivava la legge urbanistica che
offriva ai comuni lo strumento dei piani regolatori, innovando per la prima
volta la materia dopo la legge urbanistica del 1942; nel febbraio 1968 si faceva la legge per
l’elezione dei consigli regionali e con i provvedimenti finanziari del 16
maggio 1970 per l’attuazione delle regioni si poteva giungere alle prime
elezioni regionali nel 1970; l’11 dicembre 1969 c’era la legge per l’
Università.
Negli anni Settanta
Certo, sono
cose del passato, quelle che secondo Renzi rivendicare oggi sarebbe come voler
mettere un vecchio rollino fotografico dentro una macchina digitale. Però
questo è stato il punto più alto a cui era giunta allora la civiltà del lavoro
e del diritto.
Bisogna dire
però che la storia di questa ascesa, fino all’apice raggiunto negli anni 70, è
stata lunghissima, difficile, contrastata.
Non è stato un progresso lineare ma una storia con continue rotture e
cadute. Ed è una storia che dobbiamo brevemente ricordare, se no non capiamo
neanche che cosa accade oggi.
Come era cominciata la storia del lavoro?
Era
cominciata male la storia umana riguardo al lavoro. In principio c’era stato il
lavoro divino della creazione; era stato un vero lavoro, come lo racconta la Genesi, tanto è vero che il settimo
giorno Dio si riposò. E col riposo di Dio, comincia il lavoro dell’uomo. Ma solo il lavoro di Dio era stato considerato
divino, e i prodotti del suo lavoro erano stati da lui stesso definiti come
buoni, molto buoni. Invece il lavoro dell’uomo è cominciato sotto il segno
dell’infermità, è stato legato al peccato e comminato come pena.
Dunque
all’inizio, c’è una grande ingiustizia nei confronti del lavoro. Il lavoro è
comune a Dio e all’uomo, lavorano tutti e due; ma il lavoro divino è una
benedizione, il lavoro umano è una maledizione.
Questa
antinomia si prolungherà per tutta la storia, perché per il suo lavoro Dio continuerà
ad essere benedetto nei secoli come autore di quella cosa meravigliosa che è il
creato, mentre per l’uomo il lavoro resterà come una maledizione per secoli.
I fraintendimenti di Dio
Naturalmente
questa antinomia tra il lavoro di Dio e il lavoro dell’uomo non era vera. Anzi
quello è stato il primo fraintendimento di Dio che c’è nella Bibbia. Come ormai
sappiamo la Bibbia è la parola della rivelazione di Dio, ma è anche il luogo
dei fraintendimenti di Dio, perché solo gradualmente gli uomini sono pervenuti
alla conoscenza e alla comprensione di Dio, e solo alla fine questa conoscenza
è giunta alla sua pienezza nel Cristo. In tutta la Bibbia, sia dell’Antico che
del Nuovo Testamento, c’è uno scarto tra il Dio come viene compreso e
raccontato dagli scrittori sacri, e il Dio di Gesù, il Dio invisibile che si
rende visibile nell’immagine di Gesù Cristo.
Uno
dei casi più vistosi e più distruttivi del fraintendimento di Dio è quello del
Dio violento. E’ evidente che il Dio che noi oggi conosciamo non è il Dio
sterminatore di certe pagine della Bibbia; ma è inutile che cerchiamo di fare
delle acrobazie interpretative per dire che quelle pagine non sono così
violente come sembrano, che esse parlerebbero non della violenza ma della
pedagogia di Dio. Un recente documento della Commissione teologica
internazionale – organismo di teologi di nomina papale dotato di un’elevata
autorità dottrinale - ha detto che in
quelle pagine si parla veramente di Dio, però c’è un fraintendimento di Dio, e
che solo dopo un lungo cammino di lettura della Parola e di ascolto dello
Spirito la comunità credente ha potuto superare gli stereotipi, le culture, i
linguaggi, in cui erano incastonate quelle false rappresentazioni di Dio.
Dunque
se c’è uno sbaglio su Dio quando lo si descrive come un Dio pronto all’ira,
vendicatore e violento, c’è anche uno sbaglio su Dio quando nella Genesi lo si rappresenta come colui che
avrebbe fatto del lavoro dell’uomo la pena del peccato: “Con dolore dal suolo
trarrai il cibo, con il sudore del tuo volto mangerai il pane” dice Gen.
3, 17-19; e siccome la pena non è una pena se non è afflittiva, aver fatto
del lavoro una pena vorrebbe dire aver fatto del lavoro una ragione di
tormento, di afflizione, di mortificazione e in definitiva di servitù.
Questo è un
punto fondamentale: nel modo in cui è pensato il lavoro, nel modo in cui viene
trattato il lavoro, c’è tutta un’antropologia.
Secondo l’antropologia
del lavoro come pena, ad esempio, il lavoro sarebbe un male da cui liberarsi; e
infatti certe ideologie influenzate da questa antropologia negativa hanno fatto
della liberazione dal lavoro un
obiettivo e un’utopia politica. Ne parlo al passato perché si tratta di
ideologie ormai superate. Liberato dal lavoro l’uomo, secondo queste ideologie,
sarebbe stato pronto per il salto nell’assoluto. Oggi siamo in presenza di un
rovesciamento totale: nella predicazione di papa Francesco, ma ancor prima in
quella di Giovanni Paolo II ,
il lavoro è considerato come una necessaria dimensione della dignità umana. E
noi oggi sappiamo che il lavoro è una maledizione e una pena solo perché gli
uomini lo rendono tale, lo assoggettano e lo sfruttano, non perché Dio ne abbia
fatto una maledizione e una pena. E se questo è vero oggi non poteva che essere
vero anche allora, nei giorni della creazione, perché Dio è sempre lo stesso.
Dunque la Bibbia si era sbagliata.
Il
lavoro dell’uomo ha in effetti un tutt’altro statuto nell’economia divina;
secondo Giovanni Paolo II
il lavoro umano rientra nel dato specifico per il quale l’uomo è ad immagine di
Dio, ad immagine di Dio che lavora. Si potrebbe sviluppare il discorso del
lavoro come componente dell’immagine, e poiché l’immagine di Dio nell’uomo
consiste essenzialmente nella libertà (così diceva San Bernardo) si potrebbe
sviluppare il discorso del rapporto - sia in Dio che nell’uomo - tra lavoro e
libertà. Un tema affascinante che però dobbiamo lasciare ad un’altra occasione.
Le conseguenze della concezione del lavoro come male
Invece
occorre vedere quali conseguenze devastanti ha portato nella storia della
civiltà l’idea del lavoro inteso come maledizione e come pena.
Prima
di tutto ha portato a una società divisa in servi e signori. Perché il lavoro ci
vuole, altrimenti la società non potrebbe vivere. Esso deve soddisfare alle
esigenze della vita fisica, e dunque è legato alla materia Ma se il lavoro è
afflittivo, se il lavoro è una pena, se è legato alla materia, esso ostacola lo sviluppo delle facoltà
superiori dell’uomo, impedisce all’uomo di realizzare se stesso. Nella
concezione antica la pienezza dell’umanità si raggiunge infatti
nell’esplicazione delle attività razionali, spirituali, nella contemplazione.
Questa è la tesi di Aristotele. E questo è il problema della società greca: se
tutti lavorano, l’uomo non si realizza. La soluzione viene trovata addossando
il lavoro in modo esclusivo ad una categoria di persone, i servi, e
salvaguardando dal lavoro un’altra classe di persone, i signori. La società non
è una società di eguali, è una società di signori e servi. I servi sono
inferiori in tutto ai signori, perfino nel fisico se ne differenziano perché
devono essere adatti alla fatica. Sono paragonabili agli animali da lavoro.
Aristotele dice che se uno non è abbastanza ricco da permettersi un servo, può
servirsi di un bue. Sono sullo stesso piano. I servi non hanno accesso
all’assoluto, non possono dedicarsi alla contemplazione; del resto, esauriti
nella fatica fisica non ne avrebbero la forza. Il lavoro staccato dalla contemplazione,
privato dello spirito, aliena l’uomo, lo riduce a cosa (e questo lo dirà Marx).
Ma
allora, in una società così polarizzata e ineguale, l’umanità non si realizza e
l’umano si perde? Aristotele risponde che anche se una sola classe, o anche una
sola persona di quella classe realizza la propria umanità, è l’umanità intera
che si realizza.
Questa
antropologia della disuguaglianza ce la siamo portata dietro per tutta la storia. E si tratta di
una diseguaglianza radicale; non dipende solo dalle condizioni economiche e
sociali, è una diseguaglianza per natura per cui gli esseri umani non sono
tutti eguali, o che si tratti della contrapposizione tra schiavi e liberi e
servi e signori, o che si tratti dell’inferiorità della donna, o che si tratti
di una diseguaglianza razziale, castale, religiosa, o che si tratti della
diseguaglianza, teorizzata da Hegel (a proposito della conquista dell’America),
tra popoli della natura e popoli dello spirito, cioè tra i popoli primitivi e
la superiore civiltà europea. Solo col costituzionalismo, con la Carta
dell’ONU, con le dichiarazioni universali sui diritti umani sarà proclamata
l’eguaglianza radicale di tutti gli esseri umani e di tutte le nazioni grandi e
piccole. Però il vizio d’origine di una
diseguaglianza irrimediabile tra gli esseri umani è riemerso sotto un’altra
forma sia nella contrapposizione di classe che, lungi dallo scomparire, come
crede Renzi, è diventata ancora più dura, sia perché nella società globale è
divenuto sempre più spietato lo scarto tra un’umanità riuscita, che si ritiene
in diritto di vivere e di essere protetta, e un’umanità minore che è destinata
ad essere emarginata o a soccombere. Questa antropologia della diseguaglianza
si manifesta a livello di massa in quella che il papa ha chiamato la società
dell’esclusione dominata dal denaro.. Nella società globalizzata a livello
mondiale sono più gli esclusi che gli inclusi. Obama ora vuole provare ad
includere 5 milioni di ispanici che sono americani a tutti gli effetti, vivono
in America, lavorano in America, ma ufficialmente non ci sono, non sono
riconosciuti, sono uomini e donne che esistono solo in nero. E se anche ci
riuscirà, contro le opposizioni che già si sono scatenate per impedirlo, altri
7 milioni rimarranno sommersi.
Ed è in questo
quadro allora che si devono osservare le condizioni del lavoro oggi e il grande
conflitto che oggi è aperto in Italia.
Il conflitto sul potere
Il
vero conflitto che oggi è in corso in Italia è un conflitto sul potere. Si
parla di economia, di lavoro, ma in realtà si lotta per il potere. Le riforme
annunciate, e in particolare le riforme costituzionali, la riforma elettorale,
non hanno per oggetto il “che fare?” dell’azione politica, hanno per oggetto il
potere, la quantità e qualità del potere. E ciò perché senza un potere
incondizionato la società dei pochi in cui la maggioranza è esclusa non si può
realizzare. C’è una sola cosa che si sottrae e che resiste alla società
dell’esclusione, e questa cosa è il lavoro tutelato dal diritto. Finché il
lavoro regge, la società della maggioranza esclusa non si può fare.
Perché ce
l’hanno tanto con i lavoratori garantiti e con i sindacati che li difendono accusandoli
come se difendessero un privilegio? Perché i lavoratori garantiti sono inclusi,
non sono esclusi. Sono, come abbiamo detto, il punto di arrivo dello sviluppo
della civiltà, che dalla condizione dei servi è arrivata fino allo Statuto dei
lavoratori. Lo Statuto dei lavoratori e l’art. 18 che ne rappresenta la pietra
angolare, sono l’apice della lotta per l’inclusione sociale, non solo dei
lavoratori ma di tutti, e perciò sono il coronamento della Costituzione e dello
Stato democratico di diritto. L’attuale lotta contro i lavoratori garantiti, e
perciò contro le garanzie del lavoro, non è una lotta a favore degli altri, a
favore dei disoccupati o dei precari, ma è la lotta perché non ci siano più
lavoratori garantiti, cioè perché non ci sia più niente che resti fisso, che
sia stabile, che sia permanente. Infatti deve rimanere una sola cosa che sia
fissa, stabile e permanente, e questa, come dice papa Francesco, è il denaro.
Il denaro che invece di servire governa.
Marx lo
chiamava il capitale, e capitalismo era chiamato il sistema in cui il capitale
invece di servire, invece di essere trafficato per il bene collettivo come i
talenti del Vangelo, dominava. Ora, quando Renzi dice che il posto fisso non
c’è più, che pensare di avere un lavoro per tutta la vita è come voler mettere
i gettoni telefonici in un I-phone, dice esattamente questo: i lavoratori
garantiti, i lavoratori inclusi, la cui ingiusta esclusione può essere
sanzionata da un giudice non esistono più, il posto fisso non esiste più. In
questa società l’unica cosa fissa, che nessuno può contestare, che nessuno può
escludere, è il denaro, è il capitale che è insindacabile anche quando con la
sua voracità e con i suoi errori distrugge se stesso nella speculazione
impazzita, dove il denaro non ha altro interlocutore che il denaro.
Questo regime
però non si chiama più capitalismo. Non è politicamente corretto chiamarlo
così. Questa parola è scomparsa dai giornali, dalle televisioni, dai dibattiti
politici. Ma siccome non è scomparsa la cosa, anzi è l’unica veramente
esistente, essa si chiama in un altro modo. Si chiama Unione Europea. “Ce lo
chiede l’Europa”. Si chiama Maastricht, concorrenza, mercato. Il mercato rende
illegittimo il ruolo samaritano della Repubblica che secondo l’art. 3 della
Costituzione deve rimuovere gli ostacoli che sul piano di fatto impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese. Il
mercato, e ormai i Trattati che ne fanno un regime, proibisce gli aiuti di
Stato alle imprese, impedisce il ruolo dello Stato nell’economia, esclude
l’attuazione dell’art. 3.
Perché
questo modello di società si realizzi ci vuole un potere che non senta ragioni.
Il potere com’è configurato nella Costituzione repubblicana non è adatto perché
la Costituzione antifascista è stata scritta non per rendere incondizionato il
potere ma al contrario per mettergli dei limiti e circondarlo di garanzie ai
fini di preservare la libertà.
Per
questa ragione se il fine ultimo è la supremazia della società del denaro, se
l’obiettivo è la distruzione del diritto del lavoro e la revoca del suo ruolo come
fondamento della Repubblica
democratica , la fase intermedia è quella di costruire una
macchina di potere che lo renda possibile. Questa fase è in corso da 25 anni da
quando, dopo la “caduta” del muro di Berlino, si pensò che le garanzie
stabilite dalla Costituzione del ’48 non fossero più necessarie. Secondo gli
attuali riformatori. la Costituente del ’47 avrebbe lasciato a metà il compito
di predisporre un governo funzionante ed efficace nel prendere decisioni, cioè
avrebbe bucato il problema della governabilità. Infatti dopo la rottura con i
social comunisti del maggio 1947, nella seconda fase della vita della
Costituente a causa della diffidenza reciproca tra i partiti, vennero
privilegiate le garanzie nei confronti del potere e non furono varate
“istituzioni decidenti”. Questa è la tesi del costituzionalista Stefano
Ceccanti esposta sabato scorso in un convegno ad Orvieto. Si può osservare che
quelle garanzie e quell’equilibrio dei poteri che nel ’47, all’inizio della
guerra fredda, avevano messo in sicurezza la democrazia, avevano in realtà un
valore non contingente, e avrebbero dovuto continuare a tenere in sicurezza la
democrazia quale che fosse stata l’evoluzione dei sistemi politici e dei
partiti. Fatto sta che già nel giugno 1991 il Presidente delle Repubblica
Cossiga in un messaggio al Parlamento dichiarava obsoleta la Costituzione del
’48, che si doveva cominciare a rottamare (allora si diceva “picconare”). E’
una cosa che vale la pena di sottolineare perché mostra che le proposte di
riforme istituzionali sono sempre venute dal Palazzo, e mai dal popolo, anche
se il popolo non ha mancato di chiamare in causa delle norme costituzionali, come
quando i giovani con una massiccia obiezione di coscienza hanno fatto cadere
l’obbligo del servizio militare di leva. In
ogni caso però la fase di riforme istituzionali a beneficio del potere si è
rivelata molto più difficile del previsto perché la Costituzione ha resistito;
però adesso i riformatori sono convinti di essere prossimi al risultato, sia
perché sono già riusciti a cambiare di fatto il sistema politico portando un uomo solo al
comando, sia perché starebbero per “portare a casa”, come dicono con sgradevole
senso di appropriazione, la riforma della Costituzione e la riforma elettorale.
In
questi termini la lotta sul lavoro è oggi nascosta dietro la lotta per il
potere. La costruzione della definitiva macchina per il potere è la vera
missione ed è il vero contenuto della politica dell’attuale governo.
La nuova macchina del potere
Come
si presenta la nuova macchina del potere? È una macchina che secondo i tempi di Renzi
dovrebbe essere messa a punto entro i prossimi mille giorni e dovrebbe
funzionare nel seguente modo:
1)
un solo uomo al comando, cioè una stessa persona come
capo del governo e capo del partito (e questo è già in atto: secondo Ceccanti è
stata la scelta geniale che in un colpo solo avrebbe permesso di avviare a
conclusione la transizione italiana) .
2)
una sola Camera da cui il governo deve avere la fiducia
(con la messa fuori gioco del Senato).
3)
un solo partito, non una coalizione, a cui sarà
assicurata per legge la maggioranza assoluta nell’unica Camera residua. Che un
solo partito abbia l’intera responsabilità del governo viene spiegato col fatto
che esso sarebbe il partito della Nazione. E qui c’è un errore radicale, perché
la Nazione non è un corpo organico che possa avere un’unica rappresentanza, che
si tratti di un uomo o di un partito. Una collettività umana come corpo
organico non esiste in natura; in natura esistono i cittadini e i corpi
intermedi, non esiste un corpo totale; tanto è vero che quando i cristiani
parlano dei fedeli come di un corpo, lo smaterializzano e lo chiamano “Corpo
Mistico”.
4)
Quanto resta della rappresentanza parlamentare sarebbe
formato nella sua maggioranza ancora da parlamentari non eletti ma nominati.
Nominati sarebbero i 95 senatori espressi dai Consigli regionali, nominati i
300 capilista dei tre maggiori partiti designati nei 100 collegi elettorali
previsti, nominati i capilista dei piccoli partiti nei collegi in cui
prendessero seggi.
Dunque un solo uomo al comando, un solo
partito, una sola Camera, una minima rappresentanza eletta e anche un solo
legislatore: infatti la riforma costituzionale attribuisce al governo e al suo
capo il potere di far votare alla Camera una legge da lui voluta nel testo da
lui voluto e senza emendamenti in una data certa se la Camera non abbia
adempiuto alla richiesta del governo di votare quella legge entro sessanta
giorni. È sufficiente questo per operare un cambio di sistema togliendo al
governo il carattere di governo parlamentare.
Se questo disegno arriverà in porto, e non
sarà bloccato col referendum popolare, è chiaro che lo scopo dei riformatori
sarà raggiunto: vincerà il progetto del fare, il potere potrà fare qualunque
cosa, anche la guerra, la cui decisione
diventerà un affare interno tra il governo e il suo partito alla Camera,
essendo il Senato escluso da tale deliberazione.
Il potere in tal modo sarà legittimato a
fare, ma il che fare sarà sottratto ad ogni limite, ad ogni garanzia, ad ogni
controllo. Ma così si torna alla fase precedente al costituzionalismo, perché
il costituzionalismo è sorto non per dare più potere al potere, ma per
sottoporlo al vincolo del bene comune e della volontà popolare, vincoli che si
manifestano come altrettanti poteri di veto, che appunto la riforma in corso
vuole abolire. Caduto il potere di veto, cioè la critica del Parlamento, dei
partiti, dei sindacati, dell’associazionismo, dei corpi intermedi, il potere è
incondizionato, può fare quello che vuole, ma allora il costituzionalismo e
anche la democrazia sono finiti.
La cosa può essere tragica. Non solo
perché il potere può fare scelte devastanti, dalla guerra all’economia alla
moneta ai diritti, ma anche perché alla società che soffre, dissente e resiste
non rimangono altre strade che le vie extraparlamentari, le vie antagonistiche,
la piazza, lo sciopero, il farsi giustizia da sé e in ultima istanza la
violenza.
Più in Italia il potere diventa arrogante,
mentre i cittadini si impoveriscono, i giovani non hanno futuro e il territorio
affoga nelle intemperie, e più si accumula un potenziale di violenza, di inimicizia,
di odio che avvelena la vita del Paese e può esplodere in imprevedibili crisi
In questo senso l’attuale governo è uno
dei più pericolosi che abbia avuto il Paese dalla nascita della Repubblica, e
ancora più grave è che ignorando il pericolo voglia rendere il mutamento
definitivo.
Che fare?
Se
per caso dei giovani ci stanno a sentire, direi che ci vogliono tre cose.
1)
Ci vuole una politica.
2)
Ci vuole una scuola.
3)
Ci vuole una fede.
Quanto alla politica, ci vuole un
partito nuovo. Un partito di tipo nuovo. I partiti personali portano al
disastro e non funzionano più, nemmeno in America. Obama da solo non ha potuto
fare niente (non quello che era necessario). I partiti culturalmente fatui
passano in fretta. Il modello del PD è fallito. Renzi lo ha mandato al macero.
Nel giro di pochi mesi, centinaia di migliaia di iscritti non si iscrivono più,
centinaia di migliaia di elettori di certo non lo votano più. Di fatto il modello, fin dal
principio, non era ragionevole. Hanno ripudiato le ideologie, poi hanno preso
due nomenclature create dalle ideologie e derivate dallo scorporo di quelle
ideologie, e ne hanno fatto un partito. Mancando una forma ne è venuto un
partito proteiforme, disponibile alle primarie aperte ai passanti e al leader
più capace di persuasione, se non di consenso.
Un partito nuovo vuol dire un partito non
volatile, non digitale, dove non ci si illude che centomila contatti di
cinquanta secondi sul web rappresentino un soggetto politico. Ci vuole un
partito dove si cammina a piedi, si incontrano le persone, si studia e si fa
politica, un partito con i gettoni. Certo
a partire dalle lotte di base, come fu per le conquiste degli anni Sessanta e
Settanta, ma poi con uno strumento politico strutturato sul territorio. Un
partito che giochi un’altra partita, che non è quella del potere, ma è quella
del bene comune, della società solidale ed inclusiva. Un partito non per sé, o
per riesumare il suo passato, ma per rappresentare e dare voce all’enorme
potenzialità dei candidati a una vita secondo equità e giustizia. E il
presupposto di fiducia è che tutto deve
essere possibile non con la violenza ma con la politica; anche ciò che si
pretende, magari in forza dell’Europa, che la politica non possa fare.
E
nel promuovere il partito nuovo, ci vuole una legge sui partiti, che dia
attuazione all’art. 49 della Costituzione, che ne assicuri la democrazia
interna, la trasparenza, che stabilisca incompatibilità tra cariche di partito
e cariche pubbliche, che ne faccia degli organi della società civile e non
delle istituzioni pubbliche e dello Stato.
Quanto alla scuola, ci vuole una nuova
alfabetizzazione. Va benissimo il linguaggio digitale, il web, Internet, ma la
scuola deve veicolare il linguaggio comune, la cultura che viene da lontano,
che richiede tempo, applicazione e fatica. Ci vuole una scuola in cui non si
studi solo per il merito, per il successo, e nemmeno solo per l’avviamento al
lavoro, ma una scuola dove si studi senza ragioni, se non quelle di vivere, di
capire, di poter comunicare con gli altri, quelli di ieri e quelli di domani.
Una scuola che non deve essere né delle imprese, né del mercato, né della
Chiesa. Una scuola della Repubblica dove le cose si insegnano e si tramandano e
si ricercano non tanto perché servano, non perché rendano, ma perché
costruiscano le persone umane. L’art. 3 della Costituzione dovrebbe essere
esteso anche all’istruzione: “E'
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che sul piano della conoscenza,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quanto alla fede, non si tratta della fede
in una Chiesa, in una dogmatica, in un’ortodossia. Si tratta della fede di papa
Francesco, che ha cominciato a parlare di un Dio misericordioso e vicino, e di
fatto ha riaperto in una società che l’aveva archiviata la questione di Dio. E
in questo contesto si può anche riformulare la questione del lavoro come
principio di riscatto, come ha fatto
il papa nel suo incontro in Vaticano con i movimenti popolari
di tutto il mondo il 28 ottobre scorso, quando ha legittimato la lotta
dei poveri per l’inclusione sociale e per combattere l’ingiustizia, e ha posto
il lavoro come un bene essenziale per l’uomo, accanto alla terra e alla casa.
Ha detto papa Francesco a proposito del lavoro. “Non esiste peggiore povertà
materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della
dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, il lavoro nero e la mancanza
di diritti del lavoro non sono inevitabili, sono il risultato di una previa
opzione sociale, di un sistema economico che mette i guadagni al di sopra
dell’uomo; sono gli effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere
umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare”. “Qui
in Italia – ha aggiunto - i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta
per cento; significa un’intera generazione, annullare un’intera generazione per
mantenere l’equilibrio, per poter mantenere e riequilibrare un sistema al
centro del quale c’è il dio denaro e non la persona umana”.
E allora qui il discorso si conclude. Il
lavoro sta all’inizio della creazione, ed è inscindibilmente lavoro di Dio e
lavoro dell’uomo. Al termine di una lunga storia il lavoro è giunto al massimo
della sua forza e della sua dignità. Oggi è sotto attacco, ma la difesa e la
promozione del lavoro è insieme difesa dell’uomo, promozione della democrazia,
e affermazione della libertà contro il potere.
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