Sul Senato
vorrei dire solo due cose. Anzitutto vorrei richiamare il monito che qualche
giorno fa faceva il costituzionalista Mario Dogliani parlando a un incontro promosso dal
Centro per la Riforma dello Stato: il monito al Partito Democratico perché dopo
i deludenti dibattiti in direzione e in Parlamento sull’Italicum e sul passaggio dal governo Letta a Renzi, non
abbandonasse ora senza combatterla la battaglia per il Senato.
In secondo
luogo vorrei dire che in una democrazia ben fondata e seria non ci sono
pregiudiziali di principio contro il monocameralismo. Alla Costituente ci fu
una posizione monocameralista e anche Ingrao, come si legge nel suo libro
uscito oggi, dopo l’esperienza di Presidente della Camera si pronunciò per
un’opzione monocamerale; in questi giorni io stesso ho scritto che piuttosto
che un Senato di notabili locali, con senatori magari di nomina quirinalizia,
come quello a cui l’inviato piemontese in Sicilia voleva ascrivere il principe
di Salina nella logica del Gattopardo, io preferirei che l’Italia offrisse di
ospitare a Palazzo Madama un Senato dei popoli aprendosi al mondo.
Però io credo
che qui vi sia di mezzo ben più che il Senato, c’è di mezzo la qualità della
democrazia, perché nella cultura degli attuali riformatori non c’è un coerente
disegno costituzionale, ma c’è, sulla scia del processo alla politica, l’idea
di buttare a mare una zavorra e di cominciare con l’abrogare mezzo Parlamento.
Ma soprattutto
mi pare che in questi giorni si stia consumando una tragedia politica, che è la
fine del Partito Democratico, come già finirono la Democrazia Cristiana
e il Partito Comunista. Già nelle maratone televisive, nei giornali, nel
dibattito politico il Partito Democratico, gli esponenti democratici non ci
sono più, c’è solo il renzismo e ci sono i renziani e le renziane. E la
questione si pone sul lato dei contenuti e sul lato dello stile, che è sostanza
anch’esso.
Sul lato dei
contenuti quella che appare è una destra finalmente pervenuta al potere. E’un
evento che giunge in Italia con un ritardo di vent’anni, perché Berlusconi ha
occupato il potere ma non è stato a misura di esercitarlo, impedendo nello
stesso tempo a chiunque altro, compresa la destra, una destra presentabile, di
esercitarlo. La chiave di questo paradosso del potere e dell’impotenza di Berlusconi
sta nella frase che più di ogni altra nelle polemiche del tempo colpì il centro
destra e provocò l’indignazione dei seguaci di Berlusconi: voi non siete
presentabili.
Ora questo
impedimento è caduto, la destra può governare e questo spiega il tripudio della
Repubblica e di tutto il sistema dei media.
Ma oltre la
questione dei contenuti - l’Italicum,
il jobs act, gli 80 euro che nella
loro incessante ripetizione propagandistica assomigliano ai treni in orario di
Mussolini - c’è una questione di cultura politica e di stile. L’attuale ceto
politico al potere si presenta e pretende il consenso in modo sguaiato. La
pretesa di essere i primi finalmente a mettere a posto le cose, la tabula rasa di funzioni culturali
sindacali e sociali esercitate da diversi soggetti storici per anni, l’idea di
un carisma frutto non di un severo tirocinio e apprendimento alla scuola della
politica e della vita, ma di una predestinazione al comando, sono devastanti e
cambiano sì l’Italia, ma la cambiano in modo da renderla irriconoscibile nei
suoi costumi relazionali e civili. La bonifica degli eccessi polemici e
insolenti del vecchio centro-destra populista, che doveva essere una delle
opere più meritorie dei suoi successori al potere, non c’è stata.
La democrazia
in Italia ha avuto i suoi momenti di durezza, di scontro, di lotta perfino
armata. Ma i grandi partiti che hanno interpretato i primi decenni della storia
repubblicana, hanno esercitato una mitezza, una pratica della ragione, un
rispetto per gli oppositori e per ogni altra componente della società politica,
che hanno educato intere generazioni ad abiti di democrazia e di tolleranza.
Oggi la
politica dei nuovi protagonisti è senza mitezza, non si sente in obbligo con la
ragione, non nutre rispetto per avversari o amici, per interlocutori e
analisti, per sindacalisti e professori, ma anzi, spesso, un sovrano disprezzo.
Questo però
vuol dire che intere fasce popolari e di opinione, eredi di altri stili e di
altre culture politiche, su cui trovavano naturale contrapporsi ai loro
avversari politici, ora sono disorientate nel vedere le loro tavole di valori
disertate dai propri referenti politici; e il passo successivo è di
riconoscersi senza rappresentanza e senza partito.
Perciò la fine
del Partito Democratico è una tragedia democratica, perciò o si riesce a
impedire che questo vuoto si apra, o si deve altrimenti riempire il vuoto.
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