domenica 5 gennaio 2014

Due risposte per il Sinodo dei Vescovi


I testi che qui pubblichiamo sono le risposte che la scuola di ricerca e critica delle antropologie, “Vasti”, che è stata attiva a Roma nell’ultimo decennio, ha inviato in data 29 dicembre 2013 alla segreteria del Sinodo dei Vescovi, in riscontro al questionario sulla famiglia inviato dallo stesso Sinodo a tutta la Chiesa. Le risposte vertono su due temi cruciali che saranno oggetto della discussione del prossimo Sinodo straordinario, previsto per l’ottobre prossimo. Il primo tema riguarda il rapporto tra legge naturale, legge positiva e Vangelo, e il secondo affronta la questione dei sacramenti ai divorziati risposati. Le risposte sono state elaborate con la collaborazione del prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo del diritto, e del prof. don Giovanni Cereti, teologo e studioso della Chiesa primitiva, in seguito alla consultazione che su questi temi è stata promossa da papa Francesco sia tra i cattolici che tra i non credenti.
                   
A - DIRITTO NATURALE, DIRITTO COSTITUZIONALE E FAMIGLIA
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei vescovi:
2 - Sul matrimonio secondo la legge naturale
a) Quale posto occupa il concetto di legge naturale nella cultura civile, sia a livello istituzionale, educativo e accademico, sia a livello popolare? Quali visioni dell’antropologia sono sottese a questo dibattito sul fondamento naturale della famiglia?
b) Il concetto di legge naturale in relazione all’unione tra l’uomo e la donna è comunemente accettato in quanto tale da parte dei battezzati in generale?
c) Come viene contestata nella prassi e nella teoria la legge naturale sull’unione tra l’uomo e la donna in vista della formazione di una famiglia? Come viene proposta e approfondita negli organismi civili ed ecclesiali?
d) Se richiedono la celebrazione del matrimonio battezzati non praticanti o che si dichiarino non credenti, come affrontare le sfide pastorali che ne conseguono?
Risposta alle domande 2a 2b 2c 2d.
La questione della legge naturale - o diritto naturale – è una delle questioni più gravi e decisive che la Chiesa si trova davanti se vuole rispondere alla necessità, affermata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II e dal Concilio stesso, di enunciare i contenuti perenni della fede nei modi che la nostra età esige (ea ratione quam tempora postulant nostra), cioè secondo “le forme della indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.
Riguardo alla questione cruciale del diritto e del rapporto tra legge e Vangelo, questa esigenza non può risolversi in un “aggiornamento” di pura cosmesi.
Ora la formula “legge naturale” (o diritto naturale) ha presso gli uomini e la cultura di oggi un significato diverso da quello che essa aveva presso gli antichi, e quindi un dialogo della Chiesa con l’età moderna che utilizzi questa formula è destinato alla più radicale incomprensione reciproca.

I limiti del giusnaturalismo

Il diritto naturale appartiene a una prima fase della storia del diritto quando, mancando una legislazione fornita di autorità e comunemente riconosciuta, il criterio di riconoscimento di ciò che fosse diritto stava in ciò che gli uomini stessi sentissero come giusto e corrispondesse a una verità o razionalità derivanti da un ordine di natura. È questa l’esperienza del nomos greco, del diritto romano e poi del diritto comune.
In questa esperienza millenaria diritto e morale finivano per coincidere, e le norme erano dedotte da un ordine esterno al diritto, supposto come oggettivo e come vero (“naturale”, appunto) e quindi, come tale, acquisibile alla conoscenza.
Di fatto però questa fase del diritto era aperta alle più gravi ingiustizie per l’arbitrarietà e il relativismo con cui la presunta giustizia era interpretata e nei più diversi modi applicata.
Inoltre, in un contesto culturale in cui la diseguaglianza, il diritto del più forte, la superiorità dell’uomo sulla donna erano considerati normali e secondo natura, la legge naturale ha potuto essere usata come fonte di legittimazione e consacrazione di un diritto positivo che si andava costruendo in modo da riprodurre e perpetuare rapporti di diseguaglianza, di discriminazione tra le persone e di sottomissione della donna; nei confronti di questa, in particolare, per secoli il diritto positivo ha assunto una posizione di netto sfavore, non senza il supporto di riferimenti culturali, morali e biblici, trasfusi in una legge naturale oggettivizzata e assolutizzata; pericolo che non è venuto meno neanche oggi. 

I limiti del giuspositivismo

La seconda fase è quella del diritto positivo, per il quale è diritto non ciò che di volta in volta è considerato giusto (secondo l’opinione di Gaio piuttosto che secondo quella di Ulpiano e così via), ma ciò che è sancito da un’autorità legittima ed ha certezza e validità per tutti. Qui a prevalere in ciò che istituisce la legge non è un principio astratto e inafferrabile di “verità” o di giustizia, ma l’autorità del legislatore (“Auctoritas non veritas facit legem”, secondo la massima di Hobbes). È questa l’esperienza di tutti gli Stati moderni di diritto.

Nel modello del diritto positivo o giuspositivismo la possibile ingiustizia delle norme è il prezzo che viene pagato ai valori della certezza del diritto, dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, della libertà contro l’arbitrio e della soggezione dei giudici alla legge. In questo modello non viene meno il riferimento a istanze morali, a valori religiosi etici o politici, comunque attinti e professati nelle diverse culture, ma essi restano come punto di vista esterno al diritto, con cui il diritto stesso viene giudicato ed anche sollecitato ad evolversi e a cambiare. Grazie a questa autonomia del punto di vista esterno rispetto al diritto ha potuto darsi la dialettica e anzi la contraddizione tra Antigone e Creonte che ha illuminato tutta la storia dell’Occidente, e bandiere ideali sempre più esigenti possono essere agitate da liberi soggetti davanti al legislatore. In questo senso ciò che un giorno veniva chiamato “diritto naturale” non è più “il diritto eterno che scorre nel tempo”, come lo definiva Giovan Battista Vico, ma è l’istanza di una sempre maggiore crescita in umanità che i soggetti storici si sforzano, anche mediante il diritto, di realizzare nel tempo.
Tuttavia la legislazione positiva, di cui il potere resta l’unico artefice ed arbitro, può cadere nelle più gravi ingiustizie, come accade quando si pone a presidio di ordinamenti economico-sociali di esclusione, e come è accaduto quando è giunta alle aberrazioni dei totalitarismi del XX secolo; questa caduta del diritto positivo nell’ingiustizia può avvenire anche ad opera di maggioranze legittime, formalmente democratiche; è questa la ragione dello scetticismo e della critica al diritto prodotto anche dagli Stati democratici, dalle loro maggioranze e dai loro partiti, nel discorso che nel 2008 Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere all’università “La Sapienza” di Roma.

La nuova realtà del costituzionalismo

Ma ora ci troviamo in una terza fase della storia del diritto e dell’umanità stessa, ed è quella della democrazia costituzionale, ovvero dello Stato costituzionale di diritto, fondato su Costituzioni rigide, quale si è affermato in Europa dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, come antidoto alle possibili cadute liberticide e vessatorie del diritto positivo e come invalidazione delle sue insufficienze e inadempienze in ordine alla realizzazione dei diritti umani fondamentali e della piena dignità delle persone.
In questo paradigma il diritto non solo deve essere valido quanto alle forme della sua produzione, ma deve essere legittimo quanto alla sostanza delle sue prescrizioni, che devono essere conformi ai principi e ai diritti fondamentali stabiliti in Costituzioni rigide che a tale scopo pongono vincoli e limiti sostanziali al potere e istituiscono sfere di intangibilità dei diritti (la “sfera del non decidibile”) di cui nemmeno le maggioranze possono disporre. Habermas ha descritto questa situazione come quella per cui “la morale non sia più sospesa in aria al di sopra del diritto, così come suggerisce la costruzione del diritto di natura nei termini di un insieme sopra-positivo di norme; adesso la morale si introduce nel cuore stesso del diritto positivo”: ma la realtà è andata ancora più avanti: ciò che è entrato nel diritto positivo non è “la morale” intesa come complesso precostituito ed unico di principi e norme (che come tale non esiste in natura, tanto più in società pluralistiche) ma è un insieme di valori diritti e doveri maturati ed espressi dalla coscienza degli uomini e dalle loro lotte ed esperienze storiche che hanno via via portato a sottoporre alla cogenza del diritto costituzionale quelle moderne istanze di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di pace, di dignità delle persone e dei popoli che papa Giovanni nella “Pacem in terris” consacrava come “segni dei tempi” e riconosceva come conquiste umane sorgenti dal basso e nello stesso tempo rispondenti alle attese di Dio.
Questa è l’esperienza, oggi non a caso combattuta dai fautori del vecchio regime, dei popoli che cercano di spingere il diritto verso più alte mete di realizzazione umana e sociale, come soprattutto oggi è dato vedere in America Latina; e ciò non abolendo il diritto ma mettendolo sotto tensione per attuazioni nuove.

I tre successivi superamenti nella storia della religione

È molto significativo notare che queste tre fasi della storia del diritto corrispondono in qualche modo a tre fasi della storia religiosa giudeo-cristiana (o “storia della salvezza” come la chiamavano i Padri). C’è stato infatti un periodo iniziale, precedente ad Abramo, in cui gli esseri umani, come dice Paolo nella lettera ai Romani, avrebbero avuto di che poter vivere secondo verità e giustizia  poiché “dalla creazione del mondo in poi” ciò che di Dio si può conoscere era a loro manifesto (Rom. 1, 19); e anche dopo l’instaurazione della legge mosaica eteronoma i pagani, rimasti al di fuori di quella legge, dimostravano che “quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti” (Rom. 2, 14-15), vale a dire che potevano far riferimento a una legge naturale racchiusa dentro di loro. C’è poi stata l’esperienza della legge mosaica, legge positiva e scritta, che traeva la sua fonte di legittimazione dall’autorità di Dio che l’aveva data al popolo d’Israele, e che perciò non poteva che ritenersi giusta. E poi è sopraggiunta l’esperienza di una terza fase della storia biblica, dopo che sul positivismo della legge di Mosè ha fatto irruzione il vaglio critico del Vangelo, che mette ogni legge scritta, compresa quella mosaica, in crisi e in tensione verso la pienezza di un’umanità pensata secondo il cuore di Dio. La “Costituzione” cristiana è infatti il Vangelo.

Verso la composizione del conflitto tra Antigone e Creonte

Nella società secolare l’avvento del costituzionalismo tende a sanare l’antico conflitto tra Antigone e Creonte. Infatti nelle odierne Costituzioni, con la positivizzazione della “legge della ragione”, i principi di giustizia storicamente affermatisi attraverso le lotte degli oppressi vengono messi alla base dell’ordinamento; e i diritti universali, riconosciuti e imputati a tutti sulla base dell’uguaglianza, vengono messi al riparo delle maggioranze e resi indisponibili al potere. Ciò viene ottenuto attraverso una tecnica volta precisamente a tutelare i deboli contro i potenti, mediante l’imposizione di limiti e vincoli alla “legge della volontà” espressa dai poteri anche democratici. In questo senso il costituzionalismo corregge e completa il positivismo giuridico attraverso norme che sono di rango superiore alla legislazione, come avviene nel nostro modello costituzionale.
Non per questo viene meno la separazione tra diritto e morale, tra religione e diritto, che l’età moderna ha acquisito ed a cui non intende rinunciare; essa del resto è coerente al principio ormai affermato della libertà religiosa e corrisponde a un altissimo interesse cristiano, che è da un lato quello di preservare l’autonomia della Chiesa nel presentarsi come “punto di vista esterno” per l’avanzamento del diritto e dall’altro è quello di attendersi che possa venir meno l’intreccio storicamente così rischioso tra Islam e legge civile nella “umma” islamica e tra sionismo e Stato nello Stato di Israele.
Nel paradigma dello Stato costituzionale di diritto le moderne Antigone (e quindi le Chiese, l’Islam, l’ebraismo, i movimenti di rinnovamento sociale e politico) conservano la loro identità quali portatrici di un punto di vista morale e politico indipendente, critico e progettuale nei confronti del diritto vigente, incluso il suo contingente dover essere costituzionale, nella prospettiva che sempre più possa ridursi il divario tra il diritto e il senso di giustizia che matura nella coscienza dei popoli.
Legge e Vangelo

Per questo la Chiesa, se vuole riprendere la sua missione e il suo magistero morale, senza essere tarpata da arcaismi ed equivoci anche di linguaggio, dovrebbe evitare di usare locuzioni come “legge naturale” o “diritto naturale” che appartengono ad altre fasi della storia della cultura e della storia delle religioni. Dovrebbe invece cogliere l’avanzamento realizzato dal costituzionalismo rispetto al vecchio positivismo giuridico, riconoscerlo come un “segno dei tempi”, e porsi nei confronti del travaglio del diritto non come portatrice di un’altra “legge”, naturale o divina che sia chiamata, ma come portatrice, di fronte al diritto, della inesauribile istanza di novità del Vangelo. È così del resto che sono stati ripudiati come ingiusti, nella Chiesa, istituti considerati un tempo conformi al diritto naturale come ad esempio la schiavitù, la guerra giusta e la pena di morte. E tanto meno si dovrebbe parlare di “legge naturale” quando oggi viene considerata come una “legge di natura” l’ideologia in base a cui funziona l’attuale economia capitalista, compresa la teoria della “ricaduta favorevole”, secondo la quale ogni crescita economica, sospinta dal libero mercato, riuscirebbe  a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo, teoria respinta da papa Francesco nella sua esortazione “Evangelii gaudium”. Si verifica anzi il contrario, perché la maggiore libertà garantita dai diritti costituzionali spesso si può tradurre in un maggior potere lasciato al mercato, e quindi in una ripresa di rapporti di diseguaglianza. C’è infatti uno sviamento portato dal liberalismo e dallo Stato moderno, che hanno procurato di liberare l’uomo ma non la donna, e che anzi hanno scatenato i poteri privati nella triplice dimensione della casa, dell’impresa e del mercato aprendo spazi a nuove ingiustizie a carico delle donne, dei lavoratori e dei cittadini. Tanto più importante è dunque che la Chiesa, giunta con l’attuale magistero pontificio alla piena consapevolezza delle devastazioni provocate dal governo del denaro e dall’idolatria del mercato, mantenga il pungolo del suo punto di vista esterno e critico nei riguardi del diritto positivo perché non receda dalla tutela dei diritti universali garantiti per tutti.


L’unità indivisibile dell’umanità maschile e  femminile

Per le medesime ragioni la difesa e la promozione della famiglia non dovrebbe essere affidata alla identificazione con la legge naturale dell’uno o dell’altro dei modelli di famiglia storicamente esistenti. Ciò che sicuramente è dettato dalla natura – e per i credenti corrispondente a un esplicito disegno divino – è l’unità indivisibile dell’umanità tra i due universi da cui essa è costituita, quello maschile e quello femminile, culminante nella riproduzione e nell’educazione della specie. È questa l’alleanza che mai dovrà venir meno, è questo il primo comandamento che si trova nel secondo capitolo del Genesi - “l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” - che non è una norma destinata a ogni singola coppia, quanto piuttosto lo statuto antropologico fondamentale che reclama l’unità e indissolubilità tra le due parti dell’unica famiglia umana, ben oltre la sessualità, e che perciò non riguarda solo gli sposati, ma tutti, altrimenti ne sarebbero lasciati fuori tutti i celibi, le nubili e le persone di vita consacrata.
Stabilito questo fondamentale e universale dato di natura, le diverse forme di famiglia, dalle più primitive alle più evolute, sono poi un prodotto della cultura, e quindi della ragione della libertà e della coscienza degli uomini, comunque educate e formate sia in senso religioso che laico. Certamente era un prodotto della cultura del tempo la famiglia descritta nella Bibbia corrispondente all’organizzazione sociale del popolo d’Israele in tribù, clan e famiglie; certamente dipendente da culture arcaiche era il rapporto gerarchico incondizionatamente maschilista che vi era istituito tra uomo e donna, o il fatto che nella stessa legge mosaica fossero statuiti la poligamia e il ripudio. La non rintracciabilità di un unico modello “naturale” di famiglia spiega anche le differenti forme adottate nel mondo greco e romano come in altri contesti culturali e sociali, e spiega come il cristianesimo, attraverso la conversione portata dal Nuovo Testamento, abbia avanzato esigenze ulteriori rispetto a quelle di natura mondana cercando di attrarre la famiglia verso forme sentite come eticamente e spiritualmente più avanzate, a cominciare dalla monogamia, privilegiato oggetto di predicazione della prima Chiesa.
Pertanto nei confronti della legge civile positiva la Chiesa dovrebbe a nostro parere valorizzare quanto in essa consideri idealmente apprezzabile (come nelle norme che vi fanno riferimento nella Costituzione italiana), mantenendo tuttavia l’autonomia del proprio punto di vista esterno al diritto, per prospettare, senza interferenze temporalistiche, quelle nuove frontiere che una sempre migliore comprensione del Vangelo suggeriscono.
La stessa metodologia di una distinzione tra quanto nel rapporto uomo-donna e nell’istituto storicamente dato della famiglia deriva dalla cosiddetta legge di natura e dal mandato divino, e quanto deriva dalla cultura e dal diritto del tempo, dovrebbe essere osservato per quanto riguarda le determinazioni che la Chiesa deve prendere sul piano pastorale, senza tagliare i ponti con culture ed esperienze che contemplano forme di famiglia diverse rispetto a quelle finora ritenute “non negoziabili”.

Relatori Raniero La Valle, direttore di “Vasti”[1], prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo del diritto[2].

(Testo discusso e approvato il 28 dicembre 2013 nel Seminario Straordinario di “Vasti, che cos’è umano?” - Scuola di ricerca e critica delle antropologie - per essere trasmesso al Sinodo dei Vescovi. La prima parte del Seminario, prima dell’esame del documento, è stata dedicata a una riflessione di Innocenzo Gargano, camaldolese, sul valore del dialogo e del “dare la parola”).

B – SEPARATI, DIVORZIATI RISPOSATI E COMUNIONE ECCLESIALE
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei vescovi:
4 - Sulla pastorale per far fronte ad alcune situazioni matrimoniali difficili
c) I separati e i divorziati risposati sono una realtà pastorale rilevante nella Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente? Come si fa fronte a questa realtà attraverso programmi pastorali adatti?
d) In tutti questi casi: come vivono i battezzati la loro irregolarità? Ne sono consapevoli? Manifestano semplicemente indifferenza? Si sentono emarginati e vivono con sofferenza l’impossibilità di ricevere i sacramenti?
e) Quali sono le richieste che le persone divorziate e risposate rivolgono alla Chiesa a proposito dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione? Tra le persone che si trovano in queste situazioni, quante chiedono questi sacramenti?
f) Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale potrebbe offrire un reale contributo positivo alla soluzione delle problematiche delle persone coinvolte? Se sì, in quali forme?
Risposta alle domande 4c 4d  4e  4f
La comunità cristiana dei nostri giorni soffre indicibilmente per il grande numero di fallimenti di matrimonio così come per l’abbandono della Chiesa e spesso della fede da parte di tante persone che vivendo nella speranza di un nuovo inizio rifiutano la rigidità della Chiesa cattolica di fronte a questo problema.
Il moltiplicarsi dei fallimenti di matrimonio nell’epoca contemporanea è legato a molteplici fattori, fra cui la maggiore durata della vita umana, una nuova parità fra i sessi che non ammette certe sudditanze del passato, l’ambiente secolarizzato nel quale l’insegnamento della stessa Chiesa è meno seguito, e forse anche l’eccessiva attesa di una felicità da ritrovare nel matrimonio che porta a rifiutare i sacrifici necessariamente connessi alla vita coniugale.
Nella ricerca di una soluzione al problema della posizione nella Chiesa dei divorziati risposati è progressivamente venuta meno la convinzione circa l’esistenza di un “vincolo ontologico” e quindi indistruttibile creato dal sacramento del matrimonio: in realtà, se il segno del sacramento del matrimonio è l’amore degli sposi e la loro volontà di essere marito e moglie, una volta venuto a mancare questo amore e questa intenzione è possibile pensare che, analogamente a quanto succede per l’eucaristia nella quale la presenza reale cessa quando il segno e cioè le specie sono corrotte, il venir meno del segno sacramentale (sia pure con grave responsabilità degli sposi) fa venire meno anche il sacramento.
Ma come superare la difficoltà che nasce dalla convinzione che la Chiesa non ha mai riconosciuto possibile lo scioglimento di un matrimonio valido, che non ha mai concesso un nuovo matrimonio mentre perdura quello precedente (accettando che il re Enrico VIII separasse la Chiesa del suo regno dalla comunione con Roma pur di non venir meno a questa convinzione), e che l’istituto dei tribunali matrimoniali con la verifica dell’esistenza o meno della validità di un matrimonio sarebbe sufficiente per affrontare adeguatamente il problema?
La via privilegiata per superare tale difficoltà è il riferimento alla prassi della comunità cristiana dei primi secoli, perché ad essa ritiene di ispirarsi anche la Chiesa ortodossa che invece concede la possibilità di un nuovo inizio a coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale e che desiderano entrare in una nuova unione riconosciuta dalla Chiesa.

La monogamia nelle prime comunità cristiane

In effetti la comunità cristiana dei primi secoli difese il valore del matrimonio contro ogni forma di rigorismo che lo negava, ma nello stesso tempo non si stancava di predicare la monogamia assoluta fatta discendere dall’insegnamento di Gesù secondo il quale “Ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separare” (Mt 19,6). L’ideale testimoniato dai discepoli di Gesù era quello di un unico matrimonio per ogni persona, ideale determinato anche dalla prospettiva escatologica per la quale si attendeva come imminente la seconda venuta del Signore. Questa scelta a favore dell’unico matrimonio escludeva in linea di principio la possibilità di seconde nozze anche dopo la morte del coniuge.
La convinzione della primissima comunità era anche che il discepolo di Cristo una volta battezzato e divenuto una nuova creatura non doveva e non poteva peccare. Poiché tuttavia ci si dovette ben presto arrendere al fatto che il peccato continuava a essere presente fra i battezzati, si pose il problema dell’esistenza o meno di “una seconda tavola di salvezza dopo il battesimo”. La Chiesa prese così gradatamente coscienza del potere affidatole da Cristo di assolvere i peccati e di riconciliare i peccatori, e questa riconciliazione avvenne nel corso dei primi secoli per i peccati gravi attraverso la penitenza pubblica, alla quale si poteva essere sottoposti una sola volta nella vita.
Sin dove si poteva però spingere il potere della Chiesa di assolvere i peccati? Mentre la grande Chiesa rimase sempre convinta di poter assolvere tutti i peccati, anche i più gravi, i Novaziani (o “Catari”, “i puri”) eresia sorta a Roma intorno al 250, ad opera di Novaziano, in epoca di persecuzioni, affermavano che vi erano tre peccati considerati da sempre come i più gravi che non potevano essere assolti se non sul letto di morte, e cioè l’apostasia sotto la persecuzione (i ‘lapsi’), l’omicidio e l’adulterio.
Nella controversia novaziana, dell’omicidio non si fa quasi mai menzione, come un peccato fortunatamente assente nella comunità cristiana. Quanto all’adulterio, secondo la testimonianza dei Padri esso veniva inteso non come una infedeltà occasionale ma nel senso preciso dell’evangelo: “Colui che ripudia il proprio coniuge e ne prende un altro, è adultero; la persona ripudiata o divorziata che si risposa è adultera; colui che sposa una persona ripudiata o divorziata è adultero” (cf. Mt 5, 32; 19, 2-9; Mc 10, 1-12; Lc 16,18) [3].
Un tale peccato di adulterio, per quanto considerato gravissimo al punto di essere parificato all’apostasia e all’omicidio, secondo la grande Chiesa (e cioè la Chiesa ‘cattolica e apostolica’) poteva essere assolto, per cui coloro che dopo un anno o più di esclusione dall’eucaristia e di sottomissione alla penitenza venivano riconciliati, erano riammessi nella comunità e potevano accedere alla comunione pur restando nel nuovo matrimonio. E bisogna notare che quando si parla di matrimonio, si intende il matrimonio contratto secondo gli usi e le leggi civili, dato che all’epoca non esisteva ancora un matrimonio amministrato dalla Chiesa, che si affermerà gradualmente nei secoli successivi fino a quando diverrà un vero e proprio sacramento col Concilio di Trento.

Per Nicea è eretico chi non accetta la comunione con chi si è sposato la seconda volta

Le testimonianze dei padri della Chiesa che possono essere portate a sostegno di questa interpretazione della prassi dell’epoca sono innumerevoli, ma decisiva per il suo valore magisteriale è l’affermazione contenuta nel canone 8 del concilio di Nicea. Questo canone, nella sua prima parte che sola ci interessa, suona così in una traduzione italiana:

VIII – Dei cosiddetti càtari

A proposito di coloro che si autodefiniscono i càtari (cioè i puri), ma che vogliono entrare nella comunione della Chiesa cattolica e apostolica, è parso bene al santo e grande concilio che essi, ricevuta l’imposizione delle mani, possano senz’altro restare nel clero. Tuttavia, prima di tutto, è necessario che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare gli insegnamenti (dogmasi) della Chiesa cattolica e di farne la regola della loro condotta, cioè di avere comunione (di essere in comunione, di ammettere alla comunione: koinonein) e con chi si è sposato per la seconda volta (digamois) e con chi è venuto meno (ha rinunciato alla fede) durante la persecuzione, ai quali tuttavia il tempo (della penitenza) è stato stabilito e il momento (della riconciliazione) è arrivato. Essi saranno dunque tenuti a seguire in ogni cosa gli insegnamenti della Chiesa cattolica e apostolica...
Di questo canone l’autenticità non viene oggi messa in dubbio, come conferma il fatto che è contenuto in tutte le collezioni di canoni degli antichi concili. Esso è stato emanato per regolare la condizione dei càtari, e cioè dei ‘puri’ (termine con il quale venivano indicati all’epoca i novaziani), e anzi più specificatamente la condizione del clero novaziano che desiderava essere (ri)ammesso nei ranghi del clero della grande Chiesa (dopo alcune disposizioni restrittive nei confronti degli eretici emanate da Costantino), come appare dal seguito del canone che parla di vescovi e preti. Essi possono essere accolti nel clero della Chiesa cattolica, una volta imposte loro le mani, a condizione che accettino per scritto di conformarsi teoricamente e praticamente ai suoi insegnamenti. L’unico “dogma” che viene chiesto di sottoscrivere è quello che veniva appunto contestato dai novaziani: essi devono accettare di fare ciò che fa la Chiesa cattolica e cioè di avere comunione (o di ammettere alla propria comunione, sia nella vita cristiana in generale, sia specificatamente nell’Eucaristia) con due categorie di persone, una volta che per esse è compiuto il tempo della penitenza pubblica e il momento della riconciliazione è arrivato. Queste due categorie di persone sono coloro che vivono in seconde nozze (digamoi) e coloro che sono venuti meno nella persecuzione (i cosiddetti lapsi).

Non solo i vedovi risposati ma  i risposati dopo un divorzio

Chi sono però questi digamoi, queste persone che sono entrate in un secondo matrimonio, che vivono in seconde nozze? Secondo un’interpretazione che si è imposta nella Chiesa latina a partire dall’epoca medievale, in conformità a un’epoca di cristianità nella quale l’unico matrimonio esistente era quello celebrato in Chiesa e la legge non prevedeva né divorzio né nuovo matrimonio, i digamoi sarebbero semplicemente i vedovi risposati. Invece, secondo l’interpretazione che appare più conforme alla situazione esistente nella Chiesa antica e che è stata poi sempre seguita nella Chiesa ortodossa, sono tutti coloro che sono entrati in un secondo matrimonio (tanto che siano vedovi quanto che siano divorziati, e forse soprattutto questi ultimi, compresi coloro che hanno sposato una persona già unita con altri in prime nozze).
Per quanto il termine digami sia stato usato quasi incidentalmente, in quanto l’interesse centrale di questo canone riguarda il mantenimento o la riammissione nel ministero del clero novaziano che vuole (ri)entrare a far parte del clero della Chiesa cattolica, esso ha una straordinaria importanza: infatti il concilio dà qui per scontato che sia ben conosciuto l’insegnamento della Chiesa cattolica che ammette i digami alla penitenza e quindi alla comunione ed esige che esso  sia riconosciuto e accettato anche dai novaziani.
Seguendo le regole classiche dell’interpretazione dei testi dottrinali del passato, cerchiamo pertanto di capire che cosa viene indicato esattamente con il termine digami.
Sul piano filologico, il termine greco digamoi indica tutti coloro che vivono in seconde nozze (e quindi sia dopo morte del coniuge, sia dopo ripudio o divorzio).
Sul piano storico, non si può non riconoscere che l’errore dei novaziani era proprio quello di escludere dalla comunione gli apostati e gli adulteri: e con quest’ultimo termine non troviamo mai indicati nelle testimonianze dell’epoca i vedovi risposati, ma proprio coloro che si erano risposati dopo un ripudio o un divorzio, secondo le espressioni dell’evangelo sopra richiamate.
Agli occhi di un cattolico di oggi sembra tuttavia impensabile che la Chiesa dell’epoca concedesse l’assoluzione agli “adulteri”, e cioè ai divorziati risposati, senza chiedere loro previamente di tornare al primo matrimonio o almeno di vivere nella seconda unione “come fratello e sorella”. Una tale difficoltà può essere risolta soltanto comprendendo quanto sia diversa la mentalità della nostra epoca e quella dei primi secoli. Per gli antichi, il peccato di “adulterio” consisteva proprio nell’avere posto fine alla prima unione in maniera irreversibile, e il problema era pertanto quello di vivere bene e fedelmente nella seconda unione. E di fatto, nel corso di tutti questi secoli, non troviamo mai una testimonianza che suoni come un invito a lasciare il nuovo coniuge e a tornare al primo coniuge.

Le prassi diverse delle Chiese d’Oriente, d’Occidente e della comunione anglicana

Le decisioni del concilio di Nicea non sono prive di valore per la Chiesa di oggi. I sette concili ecumenici riconosciuti concordemente come tali dalle Chiese di Oriente e di Occidente e le loro decisioni hanno un valore particolare per il fatto di avere avuto luogo all’epoca della Chiesa indivisa e ad essi ci si richiama spesso nelle due Chiese. Fra questi concili una particolare rilevanza hanno i primi quattro, e fra tutti il concilio di Nicea ha un’autorità del tutto particolare.
Per questo motivo, sul piano dogmatico, si può dire che l’insegnamento di questo canone di Nicea relativamente all’obbligo per un cristiano di riconoscere che la Chiesa ha il potere di rimettere qualsiasi peccato, una volta che il peccatore si è dimostrato pentito ed ha fatto penitenza, e quindi anche il peccato di essere venuto meno al proprio patto coniugale e di essere entrato in maniera umanamente irreversibile in una seconda unione, sembra pienamente valido anche per la Chiesa cattolica di oggi. Proprio di fronte all’errore dei novaziani che non volevano riconoscere alla Chiesa il potere di assolvere tutti i peccati, compresi “quelli che conducono alla morte”, la Chiesa cattolica ha preso più chiaramente coscienza del fatto che Cristo le ha affidato il potere di esercitare la misericordia nei confronti di qualsiasi peccatore, pentito e deciso a iniziare una nuova vita secondo i dettami del Signore.
Nel corso dei secoli successivi, mentre la Chiesa d’Oriente ha continuato a seguire (sia pure con molte sbavature) la prassi testimoniata dal concilio di Nicea, la Chiesa d’Occidente ha conosciuto lo tsunami di quelle che in Italia chiamano “le invasioni barbariche” e in Germania “le trasmigrazioni dei popoli”, che hanno reso più difficile conoscere e conservare alcune tradizioni della Chiesa antica. Gradatamente si è diffusa in Occidente la penitenza privata, e con essa i “libri penitenziali”, mentre più tardi si sono costituiti i tribunali ecclesiastici, attraverso i quali la Chiesa d’Occidente ha inteso operare per il bene del matrimonio e della famiglia e esercitare la misericordia nei confronti dei matrimoni falliti.
Oggi nella Chiesa cattolica si è diffusa la prassi di venire incontro in molteplici modi alle necessità spirituali dei divorziati risposati, anche con l’assoluzione sacramentale, ma solo l’interpretazione che è stata data del canone 8 di Nicea consente di offrire un fondamento di fede a una prassi penitenziale che non appare altrimenti sufficientemente fondata sul piano dottrinale.
Sul piano pastorale infine, si deve concludere che la Chiesa è chiamata a compiere una duplice missione: da una parte quella di proclamare il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia e di far conoscere la bellezza di un matrimonio riuscito, segno dell’amore di Dio per il suo popolo e dell’amore del popolo per il Signore; e dall’altra quella di annunciare la misericordia di Dio per coloro che non sono riusciti (con colpa o senza colpa) a mantenere fede alla parola data nella celebrazione del loro matrimonio. Per far risaltare tutto lo splendore del matrimonio è necessario non difendere accanitamente quelle unioni che in quanto si sono concluse con un fallimento non sono probabilmente “ciò che Dio ha unito”. Tanto più che la rigidità della Chiesa cattolica nei confronti dei matrimoni falliti ha potuto fra l’altro indurre molti giovani a temere di prendere un impegno per la vita e a non consacrare più la propria unione con una celebrazione ecclesiale.
Per salvaguardare la continuità della prassi della Chiesa cattolica, i tribunali ecclesiastici potrebbero continuare a esistere (nei Paesi in cui essi sono stati costituiti) per i casi più evidenti di nullità. Tuttavia il passaggio graduale a un sistema penitenziale, forse davanti al tribunale sacramentale del vescovo, o forse anche con una forma di penitenza pubblica trattandosi di un peccato conosciuto dalla comunità, potrebbe manifestare meglio la misericordia e la compassione di Dio nei confronti di coloro che hanno fallito, li potrebbe impegnare in un cammino di conversione personale (del tutto assente con l’attuale sistema dei tribunali ecclesiastici), e soprattutto potrebbe manifestare pienamente il potere che la Chiesa ha ricevuto dal Signore di assolvere tutti i peccati, anche i più gravi, e di poter concedere a tutti una nuova ripartenza.
La portata non solo pastorale (per la pace e la serenità che potrebbe restituire a milioni di cattolici molto spesso tentati di lasciare la Chiesa cattolica o comunque disamorati nei suoi confronti) ma anche ecumenica di una tale soluzione non ha bisogno di essere ricordata, essendo questa la soluzione conservata dalla Chiesa orientale e adottata oggi anche dalla comunione anglicana (come ha dimostrato l’assoluzione concessa dall’arcivescovo di Canterbury agli “adulteri” Carlo e Camilla prima di procedere alla celebrazione del loro matrimonio). La Chiesa è chiamata ad annunziare la lieta novella dell’evangelo anche in campo matrimoniale, ma non può non manifestare la misericordia di Dio nei confronti di quanti non hanno saputo o potuto mantenere la parola data nella celebrazione del matrimonio: il Signore ha donato alla Chiesa il potere di rimettere tutti i peccati e “Cristo ci ha chiamati alla pace!” (1 Cor 7,15).
La misericordia di Dio, di nuovo con tanta forza annunciata oggi nel magistero di papa Francesco, è il criterio ultimo in base a cui devono prendersi le decisioni pastorali della Chiesa. È questa anche la ragione addotta da Epifanio di Salamina, nel IV secolo, per motivare il comportamento della Chiesa primitiva nei riguardi dei divorziati risposati: Dio “nella mano ha la vita, e la salvezza e l’amore per gli uomini. E perché egli mai agisca così a lui solo è noto”; mentre “i puri” che “si vantano di rifiutare coloro che vivono in seconde nozze”, rendono “crudele e inumano Iddio”.

Relatore prof. don Giovanni Cereti, teologo [4].

(Testo discusso e approvato il 28 dicembre 2013 nel Seminario Straordinario di “Vasti, che cos’è umano?” - Scuola di ricerca e critica delle antropologie - per essere trasmesso al Sinodo dei Vescovi. La prima parte del Seminario, prima dell’esame del documento, è stata dedicata a una riflessione di Innocenzo Gargano, camaldolese, sul valore del dialogo e del “dare la parola”).

Roma, 29 dicembre 2013, festa della Santa Famiglia


[1] Raniero La Valle è stato direttore de “L’Avvenire d’Italia” durante il Concilio Ecumenico Vaticano II.
[2] Luigi Ferrajoli insegna Filosofia del diritto e Teoria generale del diritto all’Università Roma Tre. Tra i suoi libri, tutti tradotti in più lingue: “La cultura giuridica nell’Italia del Novecento” (Roma-Bari 1999); La sovranità nel mondo moderno” (2004); “Diritti fondamentali. Un dibattito teorico (a cura di E: Vitale, 2008); “Poteri selvaggi, la crisi della democrazia italiana” (2011); “Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale” (2011); “Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia” (3 voll.: I. teoria del diritto; 2. Teoria della democrazia; 3. La sintassi del diritto, 2007-2012); “La democrazia attraverso i diritti” (2013).
[3] Cfr. Giovanni Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Terza edizione, Aracne, Roma, 2013.
[4] Dottore in teologia dogmatica dal 1981, don Giovanni Cereti ha tenuto corsi di teologia ecumenica in diverse facoltà ecclesiastiche, tra cui il Marianum di Roma, l’Istituto di studi ecumenici di Venezia e la Pontificia facoltà teologica di Sicilia. Tra le pubblicazioni: “Riforma della Chiesa e unità dei cristiani nell’insegmaneto del Concilio Vaticano II” (Verona 1985, 2012), “Molte chiese cristiane, un’unica chiesa di Cristo” (Brescia 1992), “Le chiese cristiane di fronte al papato” (Bologna, 2006), “Pagare le tasse. Solidarietà e condivisione” (Assisi, 2010).

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