domenica 17 marzo 2013

UN VESCOVO DELL’ALTRO MONDO?


Chiamatemi Francesco

E che cos’altro deve essere un papa se non un confessore della fede? Questo ha detto Francesco nella sua prima omelia ai cardinali nella cappella Sistina: di essere tutti lì, vescovi, preti, cardinali, papa, per nient’altro che per professare la fede in Cristo, e questo crocefisso. Ed ecco allora che si scompaginano tutte le previsioni e le speculazioni della vigilia, su ciò che avrebbe scelto il Conclave, se un papa dell’una o dell’altra fazione della Curia, se un papa diplomatico o politico, uno che avrebbe riportato la disciplina nel clero o che avrebbe risolto il problema dello IOR. Ecco che arriva un papa che di fronte a una Chiesa tormentata ed in crisi, e dopo tante riforme sognate e fallite dice: ricominciamo dalla fede.
Ed allora si capisce perché si è presentato al balcone non come il nuovo Sommo Pontefice dato al mondo, ma come il nuovo Vescovo dato alla comunità diocesana di Roma, si capisce perché ha indicato, come suo primo collaboratore, il cardinale vicario di Roma e non il segretario di Stato; si capisce perché al papa che lo aveva preceduto si è rivolto come al “vescovo emerito” di Roma, e si capisce perché prima di benedire il suo popolo, ha chiesto al suo popolo di benedirlo, e si è inchinato davanti a lui: un gesto che poteva pure essere mostrato per televisione in tutto il mondo, ma che raggiungeva la sua verità solo in quel silenzio, in quel guardarsi, in quel rapporto fisico immediato, in quella piazza, in quella città, del vescovo con i fedeli della sua Chiesa. Perché se il problema è la fede, ebbene la fede ha bisogno di un rapporto tra le persone, reale e non virtuale, ha bisogno di gesti condivisi e comuni, non si può trasmettere per procura, o riempiendo piazze straniere e fuggendo subito dopo, o scrivendo libri ed encicliche. Certo, anche Paolo scriveva le lettere. Ma poi andava a visitare e a confermare le Chiese, e per tornare a Gerusalemme ci ha messo quattordici anni. Per questo il papa non è un vescovo titolare dell’universo mondo, ma è il vescovo di Roma, ed è mediante tale Chiesa che presiede nella carità alle altre Chiese.

Sicché già nei primi gesti del nuovo papa si sono delineate delle importanti novità istituzionali.
Anzitutto con la scelta del nome. Se Angelo Roncalli, quasi a volersi nascondere tra un gran numero di testimoni, aveva scelto un nome che era stato assunto da una lunga serie di papi così da essere il ventitreesimo di loro, Jorge Mario Bergoglio ha preso un nome che è unico in tutta la storia della Chiesa. Nessun papa aveva osato chiamarsi Francesco. Non solo perché sarebbe stata imbarazzante  l’opulenza pontificia in paragone alla povertà di cui quel nome è segno, ma perché fin da quando si erano trovati di fronte Innocenzo III e Francesco di Assisi, Francesco e il papa sono stati vissuti nella Chiesa come due archetipi, come due figure diverse dell’essere cristiano, come un’antitesi tra istituzione e profezia,  tra l’umile Canto delle Creature e la pretesa della sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Un papa pertanto non può chiamarsi Francesco se si limita a gesti di sobrietà e povertà, e non basta che abbandoni la mozzetta rossa e il rosso delle scarpe che alludono alla porpora della clamide e delle altre insegne imperiali trasmesse al pontefice da Costantino; non basta questo e nemmeno che vada in autobus o si cucini da sé (questo tutti noi lo facciamo), se non fa sua la povertà di Francesco come realtà teologale, come testimonianza di un vangelo “sine glossa” che parla di un Dio che da ricco si è fatto povero, di un onnipotente che ha preso la figura del servo, di chi era nella forma di Dio e si è svuotato fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò questo nome è in realtà un programma di riforma della Chiesa.
E’ da cinquant’anni del resto, che la Chiesa ci prova, ad “aggiornarsi”, dall’inizio del Concilio Vaticano II. Dapprima il cambiamento fu avviato da un papa, poi fu continuato dal Concilio, adesso di nuovo potrebbe essere promosso da un papa. Ma lo scrigno del cambiamento è lì, nel Concilio che c’è già stato ed è stato messo in quarantena, e se ora la quarantena finisse, non ci sarebbe bisogno di aspettarne un altro.
Una novità istituzionale è anche che sia diventato papa un gesuita. Neanche questo era mai successo. E anche qui sono stati smentiti i rumori della vigilia. Ci si chiedeva se sarebbe stato un papa dei movimenti o della Curia, di Comunione e Liberazione o di Sant’Egidio. Ed ecco un papa che non rinvia a una Chiesa di movimenti, ma a una Chiesa di comunità cristiane comuni, non identitarie, e alla Chiesa dei grandi Ordini religiosi. Ed un significato specifico ha proprio il fatto che si tratti di un gesuita dell’America Latina, che sia diventato papa bianco un religioso della congregazione del “papa nero”. Tra i gesuiti e la Santa Sede, e in particolare Giovanni Paolo II, si è consumato infatti un dramma nella Chiesa postconciliare,  con epicentro proprio in America Latina. I gesuiti, che sono stati tra i primi evangelizzatori di quel continente, fecero propria  la scelta preferenziale dei poveri proclamata dai vescovi a Medellin, e poi si impegnarono nella teologia della liberazione, che Roma accusava di marxismo. Tra il 1973 e il 2006  48 gesuiti subirono per la loro missione una morte violenta: tra questi Padre Ellecuria e i gesuiti dell’Università del Salvador, Rutilio Grande, preannuncio dell’uccisione di mons. Romero. Ma tra Padre Arrupe, il generale, e Giovanni Paolo II ci fu una vera rottura, tragica per un gesuita stretto da un duplice voto di obbedienza, a Dio e al papa. Quando Arrupe fu eletto segretario della Confederazione mondiale degli ordini religiosi, il papa si rifiutò di riceverlo. Con questo dolore Padre Arrupe si ammalò e morì.
In questo aspro travaglio, le notizie che si hanno della parte che vi ebbe Bergoglio, non ancora vescovo, sono che egli non si schierò, ma preferì, come suo modo di vivere il dramma, ritirarsi nell’ascesi e nella preghiera. Certo, se è noto come “conservatore”, è anche perché fu contrario alla teologia della liberazione; ed è questa la ragione per cui oggi, tra gli esponenti di quel movimento, c’è una discussione sul come prendere la sua elezione al papato.
La biografia del papa è diventata così oggetto dell’attenzione dei media, anche perché è una biografia argentina, dipanatasi in un Paese che per anni è stato violentato dalla dittatura militare in nome della “sicurezza nazionale”; in quella “piazza di maggio” su cui si apre la cattedrale si è ogni settimana gridato il dolore delle madri e delle nonne di cui erano stati fatti sparire figli e nipoti, e non sempre gli uomini di Chiesa fecero le scelte giuste. Lui forse le fece, se da quel profondo Sud del mondo è giunto fin qui accompagnato da uno straordinario amore della sua gente, ed ora i suoi gesti sono capaci di scatenare un così grande consenso popolare. Però non è indagando la sua biografia che sapremo come farà il papa. E non perché la biografia di una persona non contenga già quello che sarà il suo futuro, ma perché la biografia di un papa si comprende solo a partire dal modo in cui sarà stato papa. Così fu per papa Giovanni, tanto sconosciuto che sentì il bisogno di presentarsi lui stesso; nessuno avrebbe indovinato dalla sua lunga storia ecclesiastica che papa sarebbe stato, e forse proprio per questo fu eletto; addirittura si parlò di un “mistero Roncalli”, per dire che non si sapeva da dove era uscito. Poi si capì che papa Giovanni era uscito dal nucleo più profondo della fede, prima di ogni sua differenziazione dottrinale e linguistica, era uscito dalla quotidiana scrittura del suo “giornale dell’anima” e da un aggiornamento indefesso della sua pietà tridentina; era uscito dalla saggezza del suo mestiere di storico, che gli aveva appreso la relatività delle cose della storia e della stessa storia ecclesiastica, e dall’esperienza di aver visto in Turchia come di Chiese venerabili, che erano state madri di tutte le Chiese, non fosse rimasta pietra su pietra. Così è stato anche per papa Benedetto di cui alla fine, grazie al suo gesto di rinunzia, si è capito molto di più dell’umiltà e della libertà di cui era fatta la sua vita.
Per la Compagnia di Gesù, che non fu capita a Roma, che non potè vedere Martini papa, l’elezione del gesuita latino-americano è in un certo senso una riparazione e una festa. E’ una contraddizione che viene composta, una ferita che si risana, una fiducia che si ristabilisce e che, come ha detto papa Francesco, è il dono che ci dobbiamo fare l’un l’altro.
Sicchè in molteplici direzioni questo pontificato sembra proporsi nel segno di ricomposizioni, di riconciliazioni, di nuove circolarità e nuovi legami nella Chiesa. A cominciare dalla nuova circolarità che Francesco vuole stabilire tra papa, vescovi e popolo; nella speranza che quella tra papa e vescovi giunga fino a forme effettive di collegialità, così sollecitate dal Concilio e così disattese dopo di esso; e nella speranza che la circolarità tra vescovi, clero e popolo si stabilisca sul modello prefigurato da Francesco nel suo primo incontro col popolo romano; non tanto come rapporti tra padri e figli, tra maestri e discepoli, tra membri di Chiesa disposti in scala gerarchica, ma come rapporti tra fratelli e sorelle, tra titolari di diversi ministeri e carismi dotati della stessa dignità e tra discepoli che sono alla scuola di uno stesso e unico maestro e reciprocamente si educano all’ascolto della Parola. Un tipo di rapporto che proprio a Roma era stato inaugurato da un altro grande papa, Gregorio Magno, la cui festa ricorreva proprio nel giorno, 12 marzo, in cui è iniziato il Conclave. Gregorio infatti aveva stabilito questa circolarità, nell’ascolto e nel reciproco aiuto a comprendere e a interpretare la Parola perché, come aveva detto ai fedeli che ascoltavano e interloquivano nelle sue omelie (cosa che oggi sarebbe strettamente proibita dalla Congregazione per il culto divino) anche voi siete “organi della verità”. “So infatti che per lo più molte cose nella Sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli”. E la circolarità consisteva in questo, che “il senso cresce e l’orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno, e con voi ascolto quello che dico”.
Se sarà questo papa Francesco, davvero non sarà solo un vescovo venuto a Roma dal fondo del mondo, ma sarà un vescovo dell’altro mondo, altro nel senso in cui si dice che un altro mondo è possibile, una Chiesa altra è possibile.
                                                                 Raniero La Valle
                        

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