martedì 6 dicembre 2011

E ora, la democrazia

di Raniero La Valle

Il 15 aprile 1994 Giuseppe Dossetti, di cui il 15 dicembre scorso abbiamo celebrato i quindici anni dalla morte, dall’ospedale dove era ricoverato a Bazzano scriveva al sindaco di Bologna una lettera per denunciare i pericoli a cui, con l’avvento della destra al potere, era  esposta la Costituzione repubblicana.
Prima di ogni altro Dossetti, che era stato un costituente sia nello Stato che nella Chiesa (a Montecitorio e al Concilio), aveva capito il senso globalmente eversivo del governo berlusconiano, che era allora appena agli inizi e aveva già detto di voler cambiare la Carta. Perciò il santo monaco
auspicava  “la sollecita promozione, a tutti i livelli, dalle minime frazioni alle città, di comitati impegnati e organicamente collegati, per una difesa dei valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione”: non solo per “riconfermare ideali e dottrine”, ma anche per “impedire a una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione: si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di stato”.
Ora Berlusconi è caduto, “le più belle dimissioni degli ultimi 150 anni”, come ha detto Benigni, e la Costituzione è ancora là. Dunque, si potrebbe dire, Dossetti ha vinto, e il popolo è salvo. Tuttavia i guasti prodotti da questa lunga fase di governi neo-liberali che si sono succeduti al potere sia in Europa che in America dopo la fine del muro di Berlino, hanno prodotto nel sistema effetti di lungo periodo che richiedono una ricostruzione altrettanto difficile quanto urgente. Sopravvissute le Costituzioni, è la democrazia che è precipitata.
Il dato che è sotto gli occhi di tutti è questo: a guidare la danza sono i mercati, le borse, il denaro e i surrogati del denaro, le banche, le agenzie di rating, le insostituibili competenze dei “tecnici”, la diarchia di fatto che si prende in Europa un potere che nessuno le ha dato, l’economia finanziaria ignara dell’economia reale, e non i popoli, non parlamenti ridotti a belletto del potere, non la politica, di cui infatti è diventata opinione comune che si debbano abbattere gli inutili costi. E tutto questo viene presentato come legge di natura: non c’è niente da fare, è così, nessuno lo ha voluto e nessuno lo può disvolere. Non è vero: è stato voluto e ora grazie al  mordere della crisi si vuole portare definitivamente a casa la vittoria del liberismo economico, della sregolatezza massima e dello Stato minimo, dell’interdizione alla politica, “alla Repubblica”, come dice la Costituzione, a occuparsi degli “ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto” la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; cioè si vuole chiudere una volta per tutte la partita, durata oltre un secolo, tra un’economia che si pretende anarchica ed ogni sua possibile correzione e regola. E questa vittoria arriva ora anche in Costituzione; già hanno cambiato l’art. 81 (il pareggio del bilancio), con un linguaggio peraltro contorto e bruttissimo, che anche in ciò fa a pugni con la limpida e a tutti comprensibile Costituzione del 48.
E allora si capisce che i ministri piangono: perché hanno cuore (e in questo la differenza di dignità e di stile con il precedente governo è abissale): ma questo pianto è anche una confessione di impotenza, e dovrebbe quindi suonare come un segnale di riscossa.
E allora occorre porre mano a un restauro della democrazia nei due ordini in cui oggi essa è negata: nell’ordine interno, restituendo la centralità al Parlamento, una vera rappresentanza ai cittadini, non solo come singoli, ma anche nelle formazioni sociali e politiche in cui si esprime il loro pluralismo, facendo della legge elettorale una legge di verità, e non di investitura di poteri minoritari e illegittimi, ricucendo le due Italie, di sopra e di sotto, di destra e di sinistra, in un’Italia sola. E nell’ordine europeo bisogna portare la democrazia là dove si esercita il potere.
L’Europa è mancata nel momento in cui alle generose, magnanime intenzioni iniziali dei Padri fondatori, non ha fatto seguito la costruzione di una vera unità politica. All’Atto unico europeo, a Maastricht, a Lisbona, è bastato trasformare una forma economica, opinabile e datata, in regime politico cogente e normativo per tutti: una ideologia economica fatta ordinamento, che batte moneta. Questo regime non ha i limiti e i controlli che i poteri statali avevano nella democrazia di ciascun Paese. Il potere se n’è andato, è stato il primo migrante della nuova Europa; ma la democrazia degli Stati non l’ha seguito. Lì il potere, qua la democrazia, ormai più involucro che sostanza. Occorre portare la democrazia lì dove oggi è il potere; una democrazia europea, una unità non delle politiche europee, ma una unità politica europea, nel tempo e nel regno, questo sì sovrano, della democrazia. Questa dovrebbe essere la nuova bandiera. Di tutti, ma almeno di una sinistra che non sa più che cosa essere.

Raniero La Valle

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